Che succede quando un regista visionario come Julian Schnabel decide di trasformare un romanzo caotico e borderline come quello di Nick Tosches in un film da festival? Succede "In the Hand of Dante", un’opera che ha fatto discutere e che a Venezia ha strappato una standing ovation da 9 minuti e mezzo.
Un mix imprevedibile: metà gangster movie con rapine, pistole e boss mafiosi, metà riflessione filosofico-letteraria sulla Divina Commedia e sul senso della vita. Oscar Isaac si sdoppia in due ruoli titanici - Nick Tosches e Dante Alighieri - e attorno a lui ruotano Al Pacino, John Malkovich, Gerard Butler, Gal Gadot, Jason Momoa e persino Martin Scorsese in versione attore.
Insomma, un cast stellare per un film che sembra uscito da un sogno febbrile. Ma di cosa parla davfero questo nuovo e potenziale cult?
La trama parte da un presupposto già da sola abbastanza esplosivo: un boss mafioso newyorkese scopre l’esistenza del manoscritto originale della Divina Commedia, custodito nei sotterranei del Vaticano, e vuole metterci le mani sopra. Per riuscirci, assolda criminali spietati e un intellettuale atipico: Nick Tosches (Oscar Isaac), scrittore rockstar e borderline che vive di eccessi, ossessioni letterarie e verità scomode.
Ma il film non si ferma a un semplice colpo alla "Ocean’s Eleven" in salsa dark. Schnabel spinge la storia su due binari paralleli: da una parte il presente, fatto di gangster, rapine e violenza pulp; dall’altra i flashback medievali, dove vediamo Dante Alighieri (sempre Isaac) alle prese con la politica, l’amore impossibile per Beatrice e il tormento spirituale che lo porterà a scrivere l’opera delle opere. Due mondi lontani che finiscono per specchiarsi l’uno nell’altro.
Se c’è una cosa che ha fatto parlare subito, quella è il cast da capogiro. Oscar Isaac regge il doppio ruolo con carisma magnetico, passando dal giornalista tossico e spigoloso al poeta medievale intriso di misticismo. Gerard Butler sorprende con una performance ipnotica nei panni di Louie, un sicario brutale eppure stranamente teatrale, mentre John Malkovich regala il suo solito mix di eleganza e minaccia.
Al Pacino interpreta lo zio di Nick in una scena da manuale, con quella voce roca che ti rimane addosso, mentre Gal Gadot appare in un doppio ruolo (moglie di Dante e assistente italiana di Nick), alimentando un gioco di specchi che flirta con il surreale.
Jason Momoa fa irruzione come gangster con muscoli e vendetta in mente, mentre Martin Scorsese, sì, proprio lui, appare in un cameo da mentore mistico, barba bianca e aforismi spirituali. È uno di quei cast che da solo vale il prezzo del biglietto.
#InTheHandOfDante director Julian Schnabel hugs his leading man Oscar Isaac after the world premiere of the film at the #VeniceFilmFestival pic.twitter.com/bZBoAn533S
— Deadline (@DEADLINE) September 3, 2025
La domanda che molti spettatori si sono fatti dopo la proiezione è semplice: ma che genere di film è questo? La verità è che "In the Hand of Dante" sfugge alle etichette. In certi momenti sembra un gangster movie vecchia scuola, con violenza spietata, rapine mozzafiato e dialoghi taglienti che ricordano Scorsese o Coppola. In altri diventa un’opera filosofica, che si perde in riflessioni sull’amore, Dio e il destino umano, con monologhi che potrebbero essere recitati in teatro.
Il risultato? Un cocktail narrativo che non sempre scorre liscio, ma che riesce a restare impresso per la sua audacia. Tant'è che alcuni critici hanno commentato:
Ed è difficile trovare una definizione più azzeccata.
Durante la proiezione veneziana, il pubblico ha reagito con un misto di shock e fascinazione. Alcune scene sono già diventate leggendarie: la rapina per recuperare il manoscritto, con tensione da cardiopalma; l’incontro tra Nick e Louie, pieno di sottintesi da tragedia greca; il flashback in cui Dante incontra Beatrice, un momento delicato che contrasta con la violenza circostante.
E poi c’è la parte più estrema: Jason Momoa che si trasforma in gangster assetato di vendetta, torture comprese, e un’apparizione di Mefistofele (Benjamin Clementine) che porta il film in territori quasi metafisici. Non tutto fila liscio, certo, ma è difficile non rimanere ipnotizzati da questa giostra.
"In the Hand of Dante" non è un film che punta all’equilibrio o alla coerenza. È volutamente esagerato, stratificato, persino caotico. Ma proprio in questo caos c’è la sua forza: Schnabel non si accontenta di raccontare una storia, vuole stordire, vuole che lo spettatore si perda e si ritrovi in un viaggio tra inferno e paradiso, tra sangue e poesia.
Forse non è un film per tutti, ma è sicuramente un film di cui tutti parleranno. E, come ogni opera d’arte estrema, divide, confonde e affascina. Venezia, intanto, gli ha già regalato un’ovazione.