"Il processo di Norimberga" non è solo un titolo che profuma di manuale di storia: è una miniserie televisiva canadese-americana del 2000 che ha trasformato uno degli eventi più drammatici del Novecento in un racconto potente, teso e sorprendentemente umano.
Basata sul libro "Norimberga: Infamia sotto processo" di Joseph E. Persico, la miniserie mescola ricostruzione storica e linguaggio cinematografico, inserendo anche vere immagini dei campi di concentramento tratte dal documentario del 1945 Campi di concentramento e prigionia nazisti.
Un pugno nello stomaco, senza filtri.
Il risultato è un docudrama che evita l’enfasi e punta tutto sul confronto tra giustizia, responsabilità e potere della parola, seguendo da vicino giudici, imputati e testimoni in un’aula di tribunale diventata teatro della storia. Ecco cosa sapere su trama, location dov'è stata girata la miniserie e il finale spiegato.
La storia inizia alla fine della Seconda guerra mondiale. Hermann Göring, Reichsmarschall del Terzo Reich, si arrende agli Stati Uniti e viene trattato, almeno inizialmente, con una sorprendente deferenza.
Nel frattempo, il presidente Harry S. Truman incarica il giudice della Corte Suprema Robert H. Jackson di organizzare un tribunale internazionale per giudicare i crimini di guerra nazisti. Jackson non è solo un giurista: è il simbolo di una giustizia che tenta di restare razionale mentre il mondo chiede vendetta.
Con la sua assistente Elsie Douglas e una squadra internazionale, vola in Germania e sceglie il Palazzo di Giustizia di Norimberga come sede del processo. Una scelta pratica, ma anche altamente simbolica.
Gli imputati - tra cui Göring, Albert Speer e Hans Frank - vengono trasferiti nella prigione militare americana. Qui entra in scena lo psicologo Gustave Gilbert, incaricato di studiare le menti dei gerarchi nazisti. Il risultato è inquietante: uomini colti, brillanti, spesso affabili. Il male non ha sempre la faccia del mostro.
La prima parte accelera quando il tribunale ascolta le testimonianze sui campi di concentramento. Le immagini reali dei lager zittiscono l’aula. Anche Göring, fino a quel momento tronfio e sarcastico, appare scosso. È uno dei momenti più forti della miniserie.
Nella seconda parte, la tensione sale. Göring capisce di avere ancora potere: il potere della parola. Usa il banco dei testimoni come un palcoscenico politico, cercando di parlare al popolo tedesco e non ai giudici.
Durante il controinterrogatorio riesce persino a mettere in difficoltà Jackson, ribaltando alcune domande con abilità retorica. Su suggerimento di Gilbert, Göring viene isolato per spezzare la sua influenza sugli altri imputati.
Intanto Albert Speer prende una strada opposta: ammette una responsabilità collettiva e mostra un rimorso raro, quasi scandaloso per l’epoca.
Uno dei momenti più disturbanti arriva con la testimonianza di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz. Il suo racconto freddo e burocratico sugli stermini lascia la corte senza parole. Qui la serie non cerca effetti speciali: basta la realtà.
Nel frattempo, emerge una riflessione più ampia. Gilbert riassume il cuore del male nazista in una frase chiave: una totale mancanza di empatia. Non follia, non isteria collettiva. Normalità disumana.
Il finale della miniserie è asciutto, ma devastante. I giudici emettono le sentenze: molti imputati vengono condannati a morte per impiccagione. Göring rifiuta ogni segno di rimorso, definisce il processo una farsa e chiede di essere fucilato come un soldato. La richiesta viene respinta.
Albert Speer, invece, elogia il tribunale nella sua dichiarazione finale e viene condannato a 20 anni di carcere. Una scelta che divide ancora oggi storici e spettatori.
La notte prima dell’esecuzione, Göring si suicida ingerendo cianuro. Il modo in cui sia riuscito a procurarselo resta oggetto di dibattito storico; la miniserie suggerisce una complicità o una falla nella sorveglianza. Ironia tragica: il gesto finale di controllo di un uomo che non ha mai accettato di essere giudicato.
Il colpo finale arriva con le parole del traduttore Howard Triest, che dice allo psicologo Kelley:
Una frase che chiude la storia, ma apre una domanda ancora attuale.
Anche se ambientata quasi interamente in Germania, la miniserie "Il processo di Norimberga" è stata girata principalmente in Canada. Il cuore della produzione è stato Montréal, in Québec, scelta per la sua architettura istituzionale e la capacità di "travestirsi" da Europa del dopoguerra.
Un luogo chiave è la prigione di St. Vincent-de-Paul a Laval, utilizzata per ricreare le scene ambientate nella prigione di Norimberga. Le sue strutture austere hanno funzionato perfettamente come sostituto realistico degli edifici storici tedeschi.
Questa scelta produttiva ha permesso alla serie di mantenere un alto livello di realismo visivo, senza perdere rigore storico. Il risultato è un docudrama che sembra girato sul posto, ma parla con un linguaggio televisivo accessibile e diretto.
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