Scritto e diretto da Jane Campion, regista neozelandese che sceglie proprio la Nuova Zelanda per le desolate ambientazioni, Il potere del cane racconta un mondo violento e maschile. Per farlo sceglie di indugiare sui particolari, dando rilevanza a oggetti, rituali, gesti, perfino i momenti di scontro o incontro non sono mai diretti ma mediati dall’azione o da espedienti: il pianoforte, l’intreccio della corda, l’ossessiva lucidatura che Phill riserva alla sella del mitico e defunto Bronco Henry, reliquia di un mentore, esposta nel fienile. È un film lento, diviso in capitoli come un libro (dettaglio che poco impatta sulla narrazione), procede imperscrutabile verso un finale destinato a scoprire finalmente le carte dei misteriosi protagonisti, e a sorprendere.
Grande prova per Cumberbatch, con un personaggio che da sfogo a una virilità tossica, inquietante, complesso, incredibilmente ambiguo nella sessualità e nelle intenzioni, ma anche per la Dunst, che nella parte di moglie fuori posto e per questo alcolizzata, non è da meno. E poi c’è suo figlio, ragazzo allampanato, votato a difenderla, che giocherà un ruolo fondamentale - spiegandoci anche il titolo, preso da un passo della Bibbia - in quello che sembrava un tipico film sulla rivalità tra fratelli, ma si rivela un agghiacciante trattato sull’odio.
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