Presentato in anteprima lo scorso 19 maggio alla 77ª edizione del Festival di Cannes, "The Substance" è il secondo lungometraggio di finzione della regista francese Coralie Fargeat. Ritorno al cinema per Demi Moore che in questa disturbante pellicola interpreta il ruolo della protagonista Elisabeth Sparkle. La Fargeat confeziona uno spietato e brutale ritratto della misoginia oggettificante appartenente al mondo dello spettacolo, ma anche una critica senza freni alla vanità femminile.
A Los Angeles pare non piovere mai; tra le perfette strade, tutte identiche e impeccabili al punto da apparire finte, un sole caldo e luminoso si poggia su ogni angolo non lasciando spazio alcuno per potersi nascondere. Una città che sembra fatta di cartone creata appositamente per uno spot pubblicitario o come scenario di un videogioco. Lungo interi viali, costeggiati da altissimi grattacieli a specchio, ci sono centinaia di palme alte alte che fanno da cornice a un cielo tinto di un vivace azzurro pastello. E tra quelle vie, progettate meticolosamente come fossero disegnate a matita, milioni di corpi statuari e anonimi, ogni giorno, sfilano senza sosta per presentarsi ad un casting, correre in palestra, o per non perdere l’appuntamento in un centro estetico. Un ritmo estenuante che solo i più forti riescono a sostenere. Los Angeles, così superficialmente allegra ed esteticamente precisa, è in realtà un angosciante incubo dove non c’è posto per la minima imperfezione o debolezza umana. Un chilo di troppo, una ruga a segnare il tempo che passa su un volto di chi cresce, una capigliatura diradata, un seno cadente, anche la più piccola smagliatura biancastra, possono farti finire irrimediabilmente tagliato fuori da un sistema rappresentato da una facciata a prima vista ineccepibile. Eppure, se ti soffermi a guardare bene per qualche secondo potrai scorgere, su quei plastificati volti simmetrici, sorrisi inquietanti che risultano robotici, diabolici, terrificanti. Se chiudi gli occhi, anche solo per un istante, ti sembrerà quasi di sentire un lamento strozzato dal pianto in preda ad un isterico tracollo psichico di chi è stremato. Ecco a voi la città delle stelle dove niente e nessuno pare potersi fermare mai.
E in questo maniacale contesto di allegria forzata c’è un’ex attrice di Hollywood ormai ricordata principalmente per il suo programma di aerobica trasmesso in tv. Elisabeth Sparkle (Demi Moore), finanche il suo cognome scintilla come una manciata di coriandoli dorati lanciati in aria in una calda giornata di primavera. Ogni settimana in televisione, sfoggiando un sorriso smagliante, insegna alle casalinghe di tutto il Paese come mantenersi in forma agitando energicamente le anche durante dei vispi esercizi ginnici. Una musica frenetica accompagna quei movimenti decisi, ma spenti i riflettori la nostra protagonista sembra non esistere. Elisabeth è sola e inconsistente come l’aria che distrattamente respira e della quale si nutre, mangiando a malapena poco altro. Ha fatto della bellezza il punto centrale della sua vita, che rapidamente le è scivolata via dalle mani non accorgendosi che stava invecchiando. Non ha amici, amori, amanti, non ha avuto figli e non c’è neanche traccia di un lontano parente. Non un hobby al di fuori dei riflettori, o una passione, neanche il più insignificante passatempo. Ma ormai ha appena compiuto cinquant’anni, e può un mondo in cui invecchiare viene visto come un’innominabile malattia che bisogna far finta che non esista, accettare questo fatto senza colpo ferire? Ovviamente no e quindi Elisabeth nel giorno del suo compleanno, trattata come si farebbe con una lebbrosa, tra un convenevole ipocrita e l’altro viene licenziata e messa alla porta, simile a un pacco del quale sbarazzarsi in fretta. Distrutta, affranta, depressa e disperata, senza più una ragione per andare avanti, verrà per caso a conoscenza di un segretissimo esperimento che concede la possibilità di ringiovanire, facendo nascere da se stessi una versione migliorata di sé. Potrà mai Elisabeth farsi scappare l’occasione di ritornare sull’onda del successo, riprendendosi il programma che l’ha resa celebre per interi decenni?
Tra i moltissimi registi e sceneggiatori francesi che ogni anno sfornano serie tv e film, più o meno noti, ce n’è una che, silenziosamente, fino a poco tempo fa si aggirava nell’ambiente quasi furtiva, senza farsi notare troppo sul mercato internazionale. Il suo nome è Coralie Fargeat, nata a Parigi nel 1976, che nel 2017 firmava il suo primo lungometraggio di finzione chiamato Revenge. Una pellicola che al tempo trovai, francamente, di poco spessore; la storia ricordava molto I Spit Your Grave riproponendo, ancora una volta, il tema della vendetta post stupro di gruppo. Niente di che, anzi il classico splatter visto e rivisto dove una bellissima ragazza di appena cinquanta chili si trasforma in una sorta di Rambo in cerca di rivalsa, facendosi giustizia da sola dopo aver subito una brutale aggressione sessuale. Passato qualche mese nessuno se ne ricordava già più, finendo dimenticato in un enorme mucchio di titoli che di certo non sono passati alla storia. E quindi com’è possibile che la stessa Fargeat sia la regista di uno degli horror migliori che abbia mai visto in tutta la mia vita? Francamente, non ne ho idea. Tant’è che già solo dai primissimi elettrizzanti minuti di The Substance, il suo secondo fantascientifico film dell’orrore presentato lo scorso 19 maggio in concorso al 77º Festival di Cannes, tutto mi sarei aspettata meno che fosse proprio lei la regista. Eppure eccoci qui, davanti a un entusiasmante colosso magistrale.
La prima cosa che salta all’occhio è l’esaltante esperienza visiva che la regia e la fotografia ci regalano attraverso colori forti, accattivanti, accesi come quelli presenti, ad esempio, nelle tele di Basquiat. I contrasti sono netti, ma gradevoli, tipo l’accostamento di un cappotto giallo ocra su una stoffa di seta blu elettrico. Il magnetico viso di Demi Moore che rapisce lo sguardo e la bellezza mozzafiato di Margaret Qualley, ovviamente segnano ulteriormente il colpo facendo strike. In tutta la pellicola sono presenti moltissimi omaggi intenzionali a diversi film horror e di fantascienza che vanno dagli anni ’60 alla fine degli anni ’80 (fatta eccezione per Lost Highway che è del 1997): uno su tutti Shining, che quasi per l’intero spettacolo viene ricordato a più riprese con ambientazioni e scene analoghe. Gli altri riferimenti vengono da: Psycho (1960), 2001: Odissea nello Spazio (1968), Carrie (1976), Blade Runner (1982), Videodrome (1983), Re-Animator (1985), The Fly (1986), Society (1989), Lost Highway (1997). Geniale e disturbante, The Substance è un ritratto crudele della vanità umana e della società che potremmo diventare e che in parte siamo già. Anche in qui, come in molti altri lungometraggi usciti quest’anno, si analizza in maniera cruda e diretta l’universo brutalmente sessualizzante nel quale le donne sono portate a crescere, formandosi in un contesto altamente abusante e fortemente competitivo, dove ognuna di noi è costretta, sin dalla prima infanzia, a tentare strenuamente di primeggiare sulle altre per non essere dimenticata. E tutto questo passa, inevitabilmente, sempre per l’estetica. Alle donne non è concesso invecchiare e Coralie Fargeat il messaggio ce lo sbatte dritto in faccia, al punto da confezionare un ansiogeno ritratto doloroso come un cuore trafitto. Noi troppo spesso valiamo esclusivamente in base a quanto attraenti appariamo agli occhi degli uomini, che se pur vecchi e poco prestanti sono sempre loro a decidere se siamo all’altezza oppure no, come facessimo parte di un costante concorso di bellezza. Difatti la vita della protagonista nella sostanza non esiste, passa il tempo chiusa nel suo appartamento tra una registrazione e l’altra di un programma televisivo. Il ruolo di Dennis Quaid l’ho trovato disgustosamente insopportabile, in quella che è sicuramente una delle sue migliori e più sorprendenti interpretazioni.
Che dire, per quanto questo lungometraggio mi abbia divertita mi ha anche fatto male: da un lato, ritrovandomi io sulla soglia dei trentacinque anni, ha aumentato la paura dell’insorgenza delle prime rughe. Dall’altro mi ha ricordato con dolore che per tutta la mia esistenza spesso mi sono ritrovata a rincorrere un’ideale di bellezza irraggiungibile, facendomi la guerra tutt’ora, torturandomi quando non mi sento al pari delle attese altrui. Una scena in particolare mi ha fatto tornare in mente quante volte io mi sia privata di incontrare qualcuno, o partecipare ad un evento, ritraendomi all’ultimo minuto perché quello che vedevo allo specchio mi disgustava e mi faceva sentire a disagio, al punto da volermi nascondere. O ancora di come a volte mi ritrovi nauseata dagli sguardi maschili, pesanti come una mano che ti spoglia con violenza, ma allo stesso tempo io ne percepisca il bisogno per sentire di valere qualcosa. Mi ha ferita. L’unico appunto che devo necessariamente fare è sul finale, che per me ha guastato interamente un capolavoro: bislacco e inutile. Peccato. Quattro virgola cinque stelle su cinque per tre quarti del film, zero stelle su cinque per l’epilogo inguardabile.