"Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue", scriveva Dino Buzzati, inviato del Corriere della Sera, in uno dei suoi primi pezzi sulla strage di via San Gregorio, a Milano. Era il 1946, e l'Italia stava cercando di rialzarsi dal disastro della guerra. Per l'eccidio, sarebbe stata di lì a poco arrestata una donna: Caterina Fort, detta "Rina". Una figura destinata a diventare un emblema.
Dopo vent'anni di regime e cinque di guerra, da cui l'Italia era uscita sconfitta e moralmente provata, in tutto il Paese si avvertiva una diffusa voglia di rinascita. Le difficoltà erano, però, enormi, e non solo materiali. A Milano, come altrove, la vita era segnata dalla precarietà e dal bisogno.
Uno scenario in cui ogni atto violento assumeva un'eco assordante. Anche perché, per anni, la censura fascista aveva imposto il silenzio sulla cronaca nera, nel tentativo di mostrare una società sicura ai cittadini: un velo calato sulla realtà, che ora si squarciava con forza.
In molti leggevano i giornali. Tutti si scambiavano - per le città - notizie sui più recenti crimini e sulle indagini. Come accadde anche per la strage di via San Gregorio, consumatasi a Milano la sera del 29 novembre 1946.
Il giorno successivo, in un appartamento al numero 40, furono trovati i corpi senza vita di Franca Pappalardo, 40 anni, e dei tre figli: Giovanni (7 anni), Giuseppina (5 anni) e Antoniuccio (10 mesi). Erano stati uccisi con violenza inaudita, colpiti ripetutamente con un oggetto contundente e lasciati a terra.
Il sangue era ovunque. La tavola era ancora imbandita: segno che l'assassino, o gli assassini, avevano colpito all'ora di cena, cogliendo di sorpresa la famigliola, riunitasi in cucina. Mancava solo il padre, Giuseppe "Pino" Ricciardi, proprietario di un negozio di tessuti in Porta Venezia, in quel momento fuori città.
I primi sospetti si concentrarono, quindi, su una donna che egli frequentava: Caterina Fort, detta "Rina", sua commessa e, da qualche tempo, anche amante. Si scoprì infatti che Franca, venuta a conoscenza del tradimento, aveva deciso di affrontare la rivale, per chiederle di stare lontana dal marito.
Fort venne convocata per essere interrogata. In un primo momento negò ogni coinvolgimento; successivamente, messa alle strette, crollò, attribuendo tutta la colpa a un momento di follia. Disse di aver agito spinta dalla disperazione, dal timore di essere abbandonata da Ricciardi, che amava.
Parlò del peso che avevano avuto, sulla sua formazione, una serie di esperienze traumatiche vissute da giovane: il padre morto davanti ai suoi occhi in montagna, la casa distrutta da un fulmine, il primo amore stroncato dalla tubercolosi.
E un matrimonio infelice, con un uomo violento, poi internato in manicomio. La sua vita era stata tutt'altro che semplice. Nata nel 1915 in Friuli, si era trasferita a Milano all'età di 16 anni. Durante la guerra, aveva lavorato come domestica e come commessa in una pasticceria. Poi aveva incontrato Ricciardi e se ne era innamorata.
Il processo si aprì nel giugno 1949 e fu seguito da una folla di giornalisti e curiosi. L'opinione pubblica era divisa: c'era chi vedeva in Rina una vittima, e chi una "belva", un'assassina fredda e calcolatrice. La giuria non ebbe dubbi, e la condannò all'ergastolo.
Dopo le prime ammissioni, Fort aveva iniziato a sostenere di non aver agito da sola, tirando in ballo altre persone che, tuttavia, risultarono estranee. Negò con convinzione, in particolare, di aver ucciso i bambini, dicendo che non avrebbe mai potuto farlo. In carcere avrebbe continuato per anni a realizzare a maglia completini per neonati.
Nel 1975 fu graziata dall'allora Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Liberata, si trasferì a Firenze, dove visse in anonimato fino alla morte, avvenuta nel 1988. Il suo caso ha segnato una svolta nella storia della cronaca nera italiana.
Non solo per la brutalità del crimine, ma anche perché, forse per la prima volta, il "mostro" aveva il volto di una persona comune, una donna qualunque. Ancora oggi, da molti il nome di Rina Fort viene ricordato, anche grazie al racconto che Buzzati fece della sua storia.
Un video d'archivio dell'Istituto Luce Cinecittà.
Altro caso emblematico è quello di Leonarda Cianciulli, detta "saponificatrice di Correggio".