Per cosa sono chiamati a votare gli italiani domenica 8 e lunedì 9 giugno? Sono cinque i quesiti referendari che saranno sottoposti al loro giudizio. Quattro sono inerenti il lavoro; uno la cittadinanza.
Per ognuno di essi si dovrà esprimere il 50% più uno degli aventi diritto affinché la consultazione popolare acquisisca valore: questa è una regola dettata dalla nostra Costituzione in quanto si è voluto impedire che una minoranza di cittadini avesse modo di abrogare una legge voluta dalla maggioranza tramite i rappresentanti parlamentari.
E allora: sulla prima scheda che verrà data a chi si recherà alle urne si proporrà di abolire uno dei decreti attuativi del Jobs Act, la legge voluta dal governo Renzi nel 2014. In particolare, si vuole cancellare il decreto numero 23 dell'anno successivo che disciplina il contratto a tutele crescenti senza l'articolo 18, un vero mantra per la sinistra.
Se vince il sì, come propone la Cgil, il Pd (sebbene solo quello vicino a Elly Schlein), Avs e il Movimento Cinque Stelle, non si torna però all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bensì a quello modificato dalla legge Fornero: si giungerà al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per tutti gli assunti dopo il 7 marzo 2015, al pari degli altri.
Se vince il no, invece, resta tutto com'è. Gli assunti dopo il 7 marzo 2015 possono essere reintegrati solo se licenziati per discriminazione, ritorsione, violazione di norme o insussistenza del fatto di cui vengono incolpati.
Il secondo quesito propone di cancellare i limiti massimi oggi previsti per l'indennizzo in caso di licenziamento illegittimo nelle imprese sotto i 16 dipendenti.
Se vince il sì, salta il tetto delle sei mensilità con possibilità di aumento a 10 o 14 in base alle anzianità per tutti gli assunti prima del 7 marzo 2015.
Se vince il no, i lavoratori assunti prima di quella data continueranno ad avere diritto a sei, 10 o 14 mensilità, mentre per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 si continuerà ad applicare il Jobs Act con al massimo sei mensilità.
Il terzo quesito propone di abrogare un altro decreto attuativo del Jobs Act, il numero 81 del 2015 sui contratti a tempo.
Cosa dice questo decreto? Sancisce la possibilità di un contratto a tempo senza causale fino a 12 mesi o anche fino a 24 mesi per motivi tecnici decisi dalle parti.
Se vince il no, quindi, rimane questa regola.
Se, al contrario, vince il sì, le imprese non potranno più stipulare contratti a tempo senza indicare la causale, la motivazione dell'assunzione. E resteranno due sole eccezioni: la sostituzione di un lavoratore assente e se lo prevede un contratto collettivo firmato dai sindacati più rappresentativi.
Il quarto quesito si concentra, invece, sulla sicurezza sul lavoro, in particolare sulla responsabilità penale estesa anche a chi appalta. Si propone, infatti, di cancellare una parte del Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (il comma 4 dell'articolo 26 per la precisione) che definisce la responsabilità del committente negli appalti.
Se vince il sì, chi affida l'appalto risponderà in solido con l'appaltatore e i subappaltatori anche per i danni alla salute dovuti a rischi specifici di questi ultimi.
Se vince il no, la regola resta quella per cui il committente risponde in solido solo per i danni alla salute per la parte non coperta dagli indennizzi Inail, esclusi i rischi specifici.
A fronte dei quesiti che vogliono smantellare il Jobs Act, in ogni caso, c'è da dire che l'ultimo dato Istat sulla disoccupazione segna per il mese di aprile 2025 una percentuale inferiore al 6% (5,9) mentre quello sull'occupazione il 62,7% (+282 unità in un anno, pari al +1,2%), record italiano.
Oggi, quindi, anche grazie al Jobs Act di dieci anni fa, sul mercato del lavoro italiano mancano i lavoratori più che le offerte di lavoro, e i rischi di licenziamenti arbitrari da sanare con l’obbligo del reintegro si sono di conseguenza molto ridotti.
Non solo: è calata anche la percentuale di contratti a tempo determinato (dal 17% al 13% in tre anni): le imprese tendono a trattenere i loro dipendenti. E i licenziamenti dei cosiddetti "precari" sono diminuiti di un quarto rispetto a prima del Jobs Act.
Fatto sta che il quinto e ultimo quesito riguarda la cittadinanza. Esso prese le mosse circa un anno fa quando, con l'oro dell'Italvolley alle Olimpiadi di Parigi caratterizzato dalle super prestazioni di due atlete di pelle nera, Paola Egonu e Myriam Sylla, Forza Italia disse che era ora di riformare la legge che la regola.
Il partito di Antonio Tajani avrebbe voluto inaugurare un percorso parlamentare, ma i suoi alleati di governo, Lega e Fratelli d'Italia, si sono schierati subito contro una nuova legge che allargasse le maglie.
Così, l'opposizione (tranne il Movimento Cinques Stelle in questo caso) ha raccolto le firme per giungere al referendum.
Se vince il sì, si abroga la legge del 1992 e si torna a quella precedente col dimezzamento da 10 a 5 degli anni di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza.
Se vince il no, invece, restano i 10 anni.
Secondo le stime del centro studi Idos, nel primo caso, ci sarebbero quasi un milione e mezzo di nuovi italiani, di cui 285 mila minorenni.