"La figlia oscura" (The Lost Daughter), film diretto da Maggie Gyllenhaal e tratto dal romanzo di Elena Ferrante, si conclude con una serie di eventi tanto ambigui quanto ricchi di significati psicologici. Al centro c'è Leda (Olivia Colman), accademica inglese in vacanza su un’isola greca, ossessionata dall'incontro con una giovane madre, Nina, e dalla sparizione della sua bambola — un oggetto-simbolo che riapre in lei ferite profonde legate al difficile rapporto con le proprie figlie.
Negli ultimi minuti del film, la tensione accumulata durante la vacanza di Leda esplode: la donna confessa a Nina di essere stata lei a prendere la preziosa bambola della figlia Elena e gliela restituisce. La confessione, carica di vergogna e di una richiesta di comprensione, viene accolta in modo freddo e minaccioso. Nina, che a sua volta vive una maternità complicata e contraddittoria, ferisce Leda con una spilla da cappello, suggerendo così la violenza diffusa tra madri intrappolate in ruoli soffocanti.
Dopo essere stata ferita, Leda lascia l’isola di notte, guidando in stato confusionale. L’ultima sequenza mostra la protagonista sulla spiaggia, ferita e apparentemente in fin di vita, mentre al telefono parla con una delle sue figlie. La conversazione tra madre e figlia è sorprendentemente serena: Leda, commossa perché la figlia la crede morta, risponde “Non sono morta, anzi, sto bene. Ti sento come quando eri bambina”.
Questa scena sospende il senso di realtà: Leda è viva o no? Ha davvero lasciato l’isola o si tratta di una proiezione mentale? Il racconto si chiude su questa ambiguità, lasciando allo spettatore la libertà di scegliere quanto sia reale o simbolico il risveglio della protagonista.
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