Il futuro che Hollywood temeva, quello per cui ha scioperato e combattuto, è arrivato. E ha un nome: Tilly Norwood.
Non è un'attrice emergente scoperta in una piccola produzione indipendente, né la figlia di una dinastia di attori. Tilly Norwood non ha un passato, non ha esperienze di vita, non ha un cuore che batte. Tilly Norwood è un'attrice interamente generata dall'intelligenza artificiale, e sta per essere rappresentata da una delle principali agenzie di talenti di Hollywood.
La notizia, che ha il sapore di un punto di non ritorno, è esplosa durante il Summit di Zurigo. Scopriamo i dettagli di questa notizia all'avanguardia, ma anche terrificante.
Eline Van der Velden, fondatrice di Xicoia, uno studio specializzato in talenti basati sull'IA, ha rivelato di essere in trattative avanzate con diverse agenzie per ingaggiare la sua creazione.
Le sue parole descrivono un cambiamento di paradigma tanto rapido quanto allarmante nell'industria dell'intrattenimento. "A febbraio eravamo in molte sale riunioni e tutti dicevano: 'No, non è niente. Non succederà'", ha dichiarato. "Poi, a maggio, la gente diceva: 'Dobbiamo fare qualcosa con voi ragazzi'. [...] ora annunceremo quale agenzia la rappresenterà nei prossimi mesi."
La reazione non si è fatta attendere. Sui social media, l'annuncio ha scatenato un'ondata di sdegno e preoccupazione.
Commenti come "desolante" e appelli a "cancellarla" si sono mescolati a cupi riferimenti a Terminator, a testimonianza di un'ansia collettiva che va oltre la semplice curiosità tecnologica.
Questa non è più fantascienza; è la cronaca di un'industria che flirta con la propria obsolescenza. Sta davvero per accadere.
Sul suo sito web e sui suoi profili social, Tilly si presenta come un'attrice londinese. Un video promozionale, generato al 100% dall'IA, la mostra in diverse pose e ambientazioni, con una fluidità quasi inquietante.
La sua creatrice, Van der Velden, spiega che Tilly è il prodotto di dieci diversi strumenti di IA, addestrata per "recitare con sfumature, emozioni e coerenza". La giustificazione è quella, ormai classica, dell'efficienza: ridurre costi e tempi di produzione in un'epoca di budget in contrazione.
Ma è un'altra frase di Van der Velden a gelare il sangue e a centrare il cuore del dibattito: secondo lei, al pubblico interessa la storia, "non se la star ha il polso".
Questa affermazione, brutale nella sua onestà, è un attacco diretto all'essenza stessa della recitazione e all'arte performativa come l'abbiamo sempre conosciuta.
Nello stesso post, la creatrice tenta di ammorbidire la pillola, affermando che "l'IA non sostituirà la creatività umana, ma la amplificherà". Ma la contraddizione è stridente. Come può un'entità senza polso "amplificare" un'arte che si nutre di esperienza vissuta, di vulnerabilità, di quella scintilla imprevedibile che chiamiamo umanità?
L'arrivo di Tilly Norwood non è un fulmine a ciel sereno. È la materializzazione delle paure che hanno paralizzato Hollywood durante gli scioperi di attori e sceneggiatori del 2023.
La protezione dall'uso non regolamentato dell'intelligenza artificiale era una delle richieste centrali, un grido di allarme contro la possibilità di essere sostituiti da algoritmi, di vedere i propri volti e le proprie voci replicati all'infinito senza consenso né compenso.
L'ingaggio di un'attrice "sintetica" da parte di un'agenzia di talenti sembra una beffa a quelle lotte, un passo deliberato verso quel futuro distopico che gli artisti hanno cercato di scongiurare.
Certo, l'IA è già presente a Hollywood. Viene usata come strumento per ringiovanire digitalmente gli attori, come nel caso di Mark Hamill in The Mandalorian, o per altre modifiche visive.
Ma c'è una differenza abissale tra usare l'IA come un pennello digitale e usarla per creare l'artista stesso. Un conto è ritoccare una performance, un altro è tentare di generarne una dal nulla.
La domanda fondamentale che Tilly Norwood ci costringe a porci è: cos'è una performance?
È semplicemente la capacità di replicare emozioni e recitare battute con coerenza, un compito che una macchina può, teoricamente, imparare a eseguire alla perfezione? O è qualcosa di più profondo?
È l'impronta di una vita, il peso delle gioie e dei dolori, l'unicità di un'anima che si riversa in un personaggio?
Può un algoritmo, per quanto sofisticato, comprendere il significato di una perdita, l'ebbrezza di un amore o la disperazione di un fallimento?
L'industria dell'intrattenimento si trova a un bivio. Da un lato, la promessa di un'efficienza senza attriti, di "star" che non invecchiano, non si ammalano e non chiedono aumenti. Dall'altro, il rischio di perdere l'ingrediente più prezioso e insostituibile: l'umanità. Hollywood sta per scoprire se il pubblico desidera davvero un'anima nella macchina, o se è pronto ad applaudire il suo fantasma.