È arrivata, dopo 21 anni, la sentenza di primo grado per l'omicidio Mollicone. La Corte d'Assise di Cassino, dopo una camera di consiglio durata quasi 9 ore, ha assolto tutti gli imputati, lasciando il delitto senza un colpevole.
È il 2001. Serena Mollicone ha 19 anni e frequenta l'ultimo anno del liceo socio-psico-pedagogico "Vincenzo Gioberti" di Sora, a pochi km dal paese in cui vive, Arce, in provincia di Frosinone. La madre è morta per una grave malattia quando lei aveva sei anni; fino ad allora è cresciuta con il padre Guglielmo, insegnante di scuola elementare e gestore di una cartolibreria del paese, e la sorella Consuelo, poi trasferitasi a Como per lavoro. La giovane frequenta da qualche mese il ventiseienne Michele Fioretto. La mattina del 1 giugno Serena si reca all'ospedale di Isola del Liri, a 10 km dal paese, per sottoporsi a degli esami. Dopo la visita, terminata verso le 9.30, fa tappa in una panetteria nei pressi della stazione, dove acquista quattro pezzi di pizza e quattro cornetti per la colazione, lasciando presumere che debba incontrare delle persone. L'ultimo avvistamento è in piazza Umberto I: la ragazza non farà mai ritorno a casa. Il cadavere viene rinvenuto verso le ore 12.15 di domenica 3 giugno nel boschetto di Fonte Cupa ad Anitrella, frazione di Monte San Giovanni Campano, a 8 km da Arce, in una zona già ispezionata il giorno precedente dai carabinieri, che non avevano notato nulla di particolare. Il corpo è adagiato in posizione supina in mezzo ad alcuni arbusti, coperto con rami e fogliame; la testa è avvolta in un sacchetto di plastica, mentre le mani e i piedi sono legati con scotch e fil di ferro. Naso e bocca sono avvolti dal nastro adesivo.
Le indagini portano ad un primo presunto responsabile nel 2002, quando ad essere inscritto nel registro degli indagati è il carrozziere Carmine Belli di Rocca d'Arce, che avrebbe dovuto incontrarsi con la giovane proprio il giorno dell'omicidio, poi prosciolto dalle accuse in Cassazione. Nel 2008 accade un fatto strano: un carabiniere di Arce, Santino Tuzi, si suicida, dopo aver dichiarato agli inquirenti di aver avvistato Serena Mollicone nella caserma del paese dalle 11 alle 14.30 circa del giorno del delitto. Finiscono indagati l’ex maresciallo della caserma Franco Mottola, sua moglie e suo figlio Marco, che vengono accusati di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Nel 2019 si punta il dito contro altre due persone, Vincenzo Quatrale, all'epoca vice maresciallo della caserma di Arce, accusato di concorso esterno in omicidio e istigazione al suicidio di Tuzi, e il carabiniere Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento: gli imputati salgono così a cinque.
È arrivata, dopo 21 anni, la sentenza di primo grado per l'omicidio di Serena Mollicone. I giudici della Corte d'Assise di Cassino, dopo una camera di consiglio durata quasi 9 ore, hanno fatto cadere le accuse per l'intera famiglia Mottola "per non aver commesso il fatto" e per gli altri due imputati, Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano, "perché il fatto non sussiste". L'impianto accusatorio non ha retto al vaglio dei giudici del primo grado. Secondo l'accusa Serena sarebbe stata uccisa all'interno della caserma di Arce, dove si era recata per recuperare dei libri lasciati nell'auto di Mottola, che gli aveva dato un passaggio. Il giovane avrebbe utilizzato la porta in legno della foresteria come arma del delitto, sbattendo violentemente il cranio della ragazza contro lo stipite, al culmine di una lite. Secondo quanto accertato da consulenze e perizie, la giovane sarebbe morta per soffocamento dopo 5 ore di agonia a causa del nastro adesivo sulla bocca e sul naso. I genitori di Mottola si sarebbero occupati dell'occultamento del cadavere, come confermato, sempre secondo l'accusa, dai tabulati telefonici. Quatrale e Suprano, pur sapendo cosa fosse successo in caserma, avrebbero deciso di non parlare. Non la pensano così, quindi, i giudici della Corte d'Assise, che lasciano l'efferato delitto senza un colpevole. Mentre nell'aula qualcuno grida "assassini, vergogna", questo il commento a caldo di Marco e Franco:
Intanto lo zio della vittima, Antonio Mollicone, sconcertato dall'esito della sentenza, replica: "E' una meschinità ma non ci fermiamo, la verità è ben altra", aprendo la strada per il ricorso in appello.