Ci sarà un nuovo processo d'Appello a carico di Michael Polaschi, il 35enne accusato dell'omicidio preterintenzionale dell'amica Francesca Manfredi, morta nell'agosto del 2020 a Brescia a causa di un'overdose da eroina. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, annullando la sentenza con cui era stato condannato a 7 anni e 4 mesi di reclusione.
I fatti per i quali il 35enne è imputato risalgono alla notte tra il 22 e il 23 agosto del 2020. L'amica Francesca Manfredi, di 24 anni, morì a causa di un'overdose da eroina al culmine di un festino a base di alcol e droga durato diversi giorni. Secondo l'accusa, Michael Polaschi l'aiutò ad iniettarsela, "allorquando la giovane aveva già assunto sostanze altamente tossiche".
Per questo, al termine del processo di secondo grado tenutosi a suo carico, era stato condannato a 7 anni e 4 mesi di reclusione (e al pagamento di una provvisionale di 200 mila euro in favore dei familiari della vittima) con l'accusa di omicidio preterintenzionale. La Corte di Cassazione, accettando il ricorso presentato dal legale che lo difende, l'avvocata Valeria Cominotti, ha ora annullato la sentenza di condanna, disponendo un nuovo processo d'Appello.
La tesi della difesa è che l'uomo non agì con l'intento di fare del male alla ragazza, bensì assecondando la sua volontà. Alle stesse conclusioni erano arrivati i giudici della Corte d'Assise, che in primo grado lo avevano assolto "per non aver commesso il fatto".
Stando a quanto ricostruito nel corso delle indagini, quella sera il 35enne avrebbe cercato di rianimare la giovane mettendola in una vasca piena di ghiaccio insieme agli altri presenti. Quando i soccorsi arrivarono, il giorno seguente, per lei non c'era già più niente da fare.
Il festino che ha portato alla morte della 24enne bresciana ne ricorda un altro, terminato col brutale omicidio del 23enne Luca Varani. I fatti risalgono alla notte tra il 3 e il 4 marzo del 2016. Il giovane fu ucciso dai coetanei Manuel Foffo e Marco Prato in un appartamento di via Igino Giordani, a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola.
Il suo corpo venne ritrovato senza vita il giorno successivo, quando Foffo, in viaggio verso l'Abruzzo per partecipare al funerale di un familiare, confessò al padre quanto aveva fatto, portandolo sul luogo del delitto. Prato a quel punto si trovava già da ore in un hotel nei pressi di piazza Bologna: quando i carabinieri arrivarono sul posto per arrestarlo, si accorsero che aveva tentato il suicidio ingerendo delle pillole.
A dimostrarlo, la lettera che aveva lasciato sul comodino, in cui diceva addio ai suoi familiari. Avrebbe portato a termine il suo piano nel carcere di Velletri, dove era stato portato in attesa di giudizio da Regina Coeli. Foffo, invece, è stato condannato a 30 anni. Davanti agli inquirenti ha ammesso di aver ucciso il 23enne con un martello e due coltelli in preda ai deliri da cocaina, assunta insieme a Prato per tre giorni consecutivi.
I due erano conosciuti a una festa tramite amici comuni. Poi avevano scoperto di avere la stessa passione, la droga, dandosi appuntamento per il festino, degenerato nel delitto che ha poi ispirato il libro "La città dei vivi" di Nicola Lagioia. Un delitto efferato e senza movente, che aveva sconvolto la Capitale e che ancora oggi da molti è ricordato con sgomento.