Chi ha conosciuto la storia di Schiele non può che esserne rimasto affascinato e intristito al tempo stesso. Egon Leon Adolf Schiele, così si chiamava, è nato nella stazione ferroviaria di un piccolo comune, poco distante da Vienna, della Bassa Austria, nel giugno del 1890. Perso il padre, morto nel 1905, la sua tutela è passata allo zio Leopold che, dopo poco, si è accorto del suo talento artistico, mandandolo a studiare all’Accademia di Belle Arti di Vienna l’anno successivo. Durante quel periodo i rapporti fra Egon e la madre sono diventati tesi e distanti, fino a logorarsi del tutto. Nel 1909 ha ufficialmente abbandonato gli studi accademici, ma già negli anni precedenti aveva cominciato a cercare ispirazione per i suoi dipinti nei caffè della città, facendo amicizia con altri pittori. Tra questi Gustav Klimt, molto più grande lui, che è poi diventato suo affezionato amico e fonte di ampio stimolo creativo, come si può riscontrare, ad esempio, nella sua bellissima tela intitolata “L’Abbraccio”, del 1917, che in tante caratteristiche rimanda al “Bacio” dello stesso Klimt. Nel 1912 è stato ingiustamente accusato da Von Mosig, un ufficiale della marina in pensione, di aver sedotto, rapito e avuto dei rapporti sessuali con la figlia minorenne Tatjana Georgette Anna. È stato per questo rinchiuso in carcere per un breve lasso di tempo: un vero e proprio trauma che ha destato in lui grandi stati d’ansia e sconforto. In una pagina del suo diario, nel periodo di prigionia, ha scritto: <<Devo vivere con i miei escrementi, respirarne l’esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta – non posso nemmeno lavarmi a modo. Eppure sono un essere umano! – anche se carcerato; nessuno ci pensa?>>. Alla fine del processo, in verità, è stato dichiarato colpevole solo di aver mostrato alla giovane le sue opere, considerate pornografiche dalle autorità perché raffiguravano scene di nudo. Nel 1914 si è sposato con la sua terza e ultima modella Edith Harms. Nel ’15 è stato costretto a servire in battaglia, ma ha comunque potuto continuare a dipingere. Sopravvissuto alla guerra, il 31 ottobre del 1918, è morto di influenza spagnola all’età di 28 anni solo dopo tre giorni dalla scomparsa della moglie, incinta di sei mesi, per la stessa malattia. È ritenuto uno dei pittori più prolifici del ‘900, perché nel corso della sua breve esistenza ha creato quasi 3000 opere, tra disegni e acquarelli, e 340 dipinti.
Nel 1914, agli inizi della Prima Guerra Mondiale, ha dipinto un quadro chiamato “Girasoli” che si ispirava alla serie di pitture di Van Gogh, decisamente più solari e vivaci, dedicate all’allegro fiore giallo. Questa tela di Schiele si presenta come una natura morta, dei girasoli appassiti, per incarnare il clima di disperazione che aleggiava in Europa poco prima dell’inizio del conflitto mondiale. Un altro aspetto che ne ha ispirato il triste tema è la morte, per sifilide, del padre, avvenuta quasi un decennio prima, che ha cambiato parecchio la vita personale e artistica di Egon. Nel 1939 il dipinto è stato trafugato dalle SS durante le spoliazioni naziste, ovvero il furto di moltissime opere ritenute “arte degenerata”, perché si allontanavano dalla concezione del regime in merito ai valori della razza ariana e della sua tradizione culturale. Creduto disperso per tanti anni, è stato poi ritrovato agli inizi del 2000 a Mulhouse, una piccola cittadina situata nell’est della Francia, in casa di un trentenne che lavorava come operaio chimico.
Di questa bizzarra e particola vicenda il regista Pascal Bonitzer ne ha fatto una commedia, chiamata “Il Quadro Rubato”, uscita nei cinema italiani lo scorso 8 maggio, scrivendone anche la sceneggiatura. Un banditore di una casa d’aste, André Masson, interpretato dall’attore Alex Lutz, si ritroverà, insieme all’ex moglie, anch’essa del settore, a valutare se la presunta tela “Girasoli” di Schiele, ritrovata in una modesta provincia francese, sia originale oppure un falso. Gradevole la narrazione leggera e a tratti divertente, particolareggiata da un accenno di comicità. Il film affronta inoltre temi tipo l’avidità, che può interferire all’interno di rapporti d’amicizia o familiari, e di come in realtà contino più i soldi e il guadagno, nel campo del commercio dell'arte, al di là del valore di un’opera e di quanto sia importante riesporla al pubblico, nel caso di ritrovamento dopo un furto o uno smarrimento, che è invece fondamentale per continuare a tramandare la storia culturale dell’umanità. Per quanto sia piacevole, non l’ho trovato un lungometraggio incisivo e di spessore. Di poche aspettative, giusto per riportare l’attenzione sul famoso quadro un tempo perduto. Non ho comunque amato il finale da Mulino Bianco. Tre stelle su cinque.