Tante volte mi sono chiesta come sarebbe andata la mia vita se avessi avuto un padre. Se da bambina la mancanza della figura paterna non è mai stata per me un problema, da adulta ho cominciato, piano piano, ad accusarne il colpo. Crescere in un contesto familiare instabile ha fatto in modo che, sin da piccola, io passassi moltissimo tempo da sola con la mia sofferenza, spesso taciuta e tenuta nascosta come fosse una vergogna, come se in qualche maniera fosse la giusta punizione per non so neanche io cosa. Durante l’adolescenza, ancora senza un papà al mio fianco a difendermi e a spiegarmi quali fossero le situazioni da evitare, attenzionata dagli sguardi maschili nella maniera sbagliata, ho iniziato a detestare gli uomini, ma allo stesso tempo a cercarne fra di loro, con dedizione e affanno, anche uno solo che potesse mostrarmi com’è ci si sente a essere protetti e amati senza malizia. Come un piccolo gatto randagio spaventato ho iniziato a soffiare contro qualunque uomo mi si avvicinasse: ho messo alla prova la coscienza di ciascuno di loro, testandone il valore morale, rimanendo nella maggioranza dei casi profondamente delusa. E ogni volta che una frase, un gesto, un comportamento, mi deludeva al punto da farmi sprofondare in uno sconforto deprimente senza speranza, percepivo l’esigenza di fuggire il più lontano possibile per nascondermi e trincerarmi nel mio dolore. Non permettevo a nessuno di loro di toccarmi, di posare su di me le mani avide e pesanti, di avvicinarsi oltre la soglia consentita: prima che potesse accadere correvo via, il più forte possibile, per non farmi acciuffare mai. Sempre vigile, ho imparato a difendermi da sola in un’età in cui non dovresti preoccuparti di non abbassare la guardia, perché dovrebbe esserci qualcuno a sorvegliarti al posto tuo. Ma, pur non volendo alcun rapporto con quello che biologicamente dovremmo definire mio padre, pur avendo avuto sin da bambina l’indole indipendente e libera, non sono riuscita, in nessun momento della mia esistenza, a frenare quell’istinto di cercare, nella figura maschile, qualcuno che mi salvasse da me stessa.
Ed è per tutte queste ragioni che domenica pomeriggio mi sono ritrovata, pietrificata e inerme, davanti allo schermo enorme della sala 6 del cinema Barberini a guardare la messa in scena di una storia che mi ha trafitto il petto senza pietà. Nell’esordio cinematografico da regista dell’attrice tedesca Alissa Jung, intitolato “Paternal Leave”, troviamo Leo, una ragazzina impertinente di quindici anni dal cuore selvaggio, che dalla Germania è scappata di nascosto dalla mamma per andare in Italia a incontare il padre biologico Paolo, a sua insaputa, che non aveva voluto riconoscerla alla nascita, abbandonandola. All’apparenza sulla difensiva e molto arrogante, in realtà la protagonista, interpretata da Juli Grabenhenrich, è una giovanissima donna che tenta di guarire le ferite della triste bimba rifiutata che è stata lei stessa, andando alla ricerca di risposte e di un amore paterno purtroppo mai conosciuto. Luca Marinelli, nel ruolo del papà Paolo, incarna una figura maschile di fatto inabile alla vita adulta e alle responsabilità genitoriali, con una personalità buona, ma purtroppo dalla psiche irrisolta. In Leo ho riconosciuto, sentendola mia, la necessità di scappare, ma allo stesso tempo di essere rincorsa per avere la prova che a qualcuno importi di lei. Se pur in maniera differente, anche Paolo sfugge e corre via e non soltanto per evitare le sue responsabilità, ma proprio come esigenza dell’anima; tratto che, alla fine, li lega entrambi, facendogli parlare una lingua che li accomuna e che solo chi vive il medesimo malessere può comprendere.
Senza monologhi, senza discussioni filosofiche o teatralità pretenziosa, la narrazione si sviluppa in uno svolgimento scorrevole, a ritmo naturale; come se stessimo osservando degli eventi che stanno accadendo davanti a noi, sotto i nostri occhi, in quell’esatto momento. Come se si fosse aperto uno squarcio sulle giornate di qualcuno, permettendoci di dare un’occhiata. In questa splendida e toccante opera prima, Alissa Jung dirige una sceneggiatura nella quale i grandi sono incapaci di comportarsi come tali e i più piccoli, con grande maturità, li obbligano a porre rimedio ai propri sbagli. Sempre meraviglioso e bravissimo Luca Marinelli che, col suo sfrenato fascino, ti impedisce di detestare fino in fondo un personaggio che altrimenti avresti odiato a occhi chiusi, facendoti per fortuna notare anche gli umani lati belli, se pur all’apparenza nascosti, di un uomo che sbaglia. Pellicola delicata, ma di ampio spessore che per quanto ti schiaffeggi, in qualche maniera, riesce anche un po’ a guarirti. Tre virgola nove stelle su cinque.