Per i tifosi del Milan, il 28 maggio non è una semplice data sul calendario. È un giorno che racchiude gloria, trionfi e ricordi indelebili, capace di risvegliare emozioni profonde anche a distanza di decenni. In due momenti diversi della loro storia, i rossoneri hanno issato al cielo la Coppa dei Campioni proprio in questo giorno, affermandosi tra le regine del calcio europeo. Due finali leggendarie, giocate in epoche lontane tra loro – nel 1969 e nel 2003 – ma unite da un filo rosso: la grandezza del Milan. A distanza di 34 anni, il club di via Turati (oggi Casa Milan) ha scritto due capitoli fondamentali del proprio prestigioso palmarès. Entrambe le vittorie rappresentano pietre miliari nella storia non solo della squadra, ma dell’intero calcio italiano.
Il 28 maggio 1969, il Milan di Nereo Rocco conquistò la sua seconda Coppa dei Campioni (la prima nel nuovo formato a eliminazione diretta, dopo quella del 1963), battendo l’Ajax per 4-1 allo stadio Santiago Bernabéu di Madrid. Era la terza finale europea per i rossoneri, che affrontavano una giovane squadra olandese alla sua prima apparizione in una finale continentale. I meneghini mostrarono subito la loro superiorità tecnica e mentale: dopo un palo colpito da Prati già al primo minuto, lo stesso attaccante milanista aprì le marcature al 6'. Poco prima dell'intervallo, su assist di Gianni Rivera, Prati segnò il secondo gol, portando il Milan sul 2-0.
Nel secondo tempo l’Ajax accorciò le distanze con un rigore trasformato da Vasović, ma la speranza olandese fu presto spenta dai gol di Sormani, con un sinistro preciso dal limite, e ancora di Prati, autore di una storica tripletta su assist del solito Rivera. Fu una vittoria netta e convincente, che sancì la superiorità del Milan sul panorama europeo e che vide emergere figure leggendarie come Rivera, Prati e il tecnico Rocco, padre del "catenaccio" italiano.
Esattamente 34 anni dopo, il 28 maggio 2003, il Milan tornò a sollevare la Champions League in una cornice completamente diversa, ma con lo stesso spirito vincente. All’Old Trafford di Manchester andò in scena una finale tutta italiana contro la Juventus, prima nella storia del torneo. Il match, giocato davanti a una cornice imponente e arbitrato dal tedesco Markus Merk, fu bloccato, tattico, dominato dalla prudenza e da una grande attenzione difensiva da entrambe le parti. L'unico gol annullato, a Ševčenko per un dubbio fuorigioco di Rui Costa, rimase uno dei pochi veri episodi da moviola.
Dopo 120 minuti di equilibrio e un supplementare in cui il Milan giocò praticamente in dieci per l’infortunio di Roque Júnior, si arrivò alla lotteria dei rigori. Dida fu decisivo, parando i tiri di Trezeguet, Zalayeta e Montero. Serginho, Nesta e infine Ševčenko andarono a segno per i rossoneri. L’ucraino segnò il rigore decisivo che regalò al Milan la sua sesta Coppa dei Campioni, e a Paolo Maldini la soddisfazione di alzare il trofeo da capitano, proprio come aveva fatto suo padre Cesare nel 1963, quarant’anni prima. Una chiusura simbolica e romantica che completò il cerchio generazionale in casa Milan.
Il 28 maggio rappresenta molto più di due vittorie per i milanisti: è un simbolo di continuità, di identità, di eredità calcistica tramandata tra generazioni. Due trionfi in due contesti completamente diversi – il primo in un calcio ancora romantico, il secondo nell’era del professionismo esasperato – ma accomunati da una mentalità vincente e da protagonisti capaci di scrivere la storia. La finale del 1969 segnò la consacrazione del Milan tra le grandi d’Europa, mentre quella del 2003 ribadì il suo status nell’epoca moderna, contro avversari temibili e sotto una pressione mediatica straordinaria.
Per chi tifa rossonero, il 28 maggio non è solo memoria: è orgoglio vivo, palpabile. È un giorno in cui il tempo si ferma e le emozioni tornano a fluire con la forza di una passione che non conosce età. E in ogni 28 maggio che passa, quei due trionfi continuano a brillare, testimoni eterni della grandezza milanista.