Ammettiamolo: tutte le volte che la maggior parte di noi passa davanti alla stazione Termini, facendo lo slalom, camminando tra le tende e i giacigli di fortuna dei senzatetto, la prima sensazione d’impeto che coglie allo stomaco è un groviglio misto di disgusto e di repulsione. Essere costretti a vedere quanto in basso può arrivare un individuo è come ricevere di colpo uno schiaffo a mano aperta dritto in faccia. Immaginatevi il palmo gigante di Antonino Cannavacciuolo che d’improvviso vi colpisce rumorosamente una guancia, così forte da lasciarvi un segno rosso rosso in pieno volto. Ecco, è questo più o meno l’effetto che fa passeggiare accanto a qualcuno che si è smarrito a tal punto da non aver quasi più coscienza di sé, che dorme steso su un pezzo di cartone in strada, coi calzoni fradici d’urina stantia e le brache incrostate di feci da chissà quanto tempo. L’olezzo acre e pungente del piscio rappreso che giace sui muri, sugli angoli dei marciapiedi, sulle scale mobili all’ingresso della metro è ormai diventato l’odore tipico del perimetro che circonda la stazione. Ma nella generale rassegnazione, dettata dallo sconforto avvilente, c’è chi come me a osservare quei corpi martoriati dall’autolesionismo e dal disagio psichico si dispera, non riuscendo a “guardare senza guardare”.
Nel 1996 mia madre terminò gli studi, laureandosi in psicologia all’Università La Sapienza di Roma. A quell’epoca io avevo sei anni e ricordo bene che le pile di fogli e dispense accatastati sul tavolo di vetro in soggiorno, che avevano accompagnato i miei primi anni di vita, furono messi via, svuotando una stanza dove aveva sempre regnato il caos. Mia mamma cominciò poi il tirocinio presso il Centro di Salute Mentale di zona e in alcune occasioni portò con sé anche me e mia sorella. Il ricordo più vivido che ho è di una festa di Natale organizzata per i pazienti del centro: ero ancora così piccola da non essere in grado di capire, ma era un tentativo di mia madre di prevenire l’insorgere di pregiudizi in me, lanciandomi in quel contesto a mo’ di terapia d’urto, come se m’avesse gettata in acqua senza braccioli, dandomi una spinta da dietro. Per quanto spavento io abbia provato nell’osservare degli adulti con lo sguardo perso nel vuoto, che camminavano su e giù, con l’aria smarrita, per dei corridoi in stanze che mi sembravano gigantesche, per quanto terrore avessi che potessero picchiarmi senza ragione alcuna, devo ammettere che alla fine ha funzionato. Crescere a contatto diretto con tutto ciò che riguarda la sofferenza psichica, studiare a mia volta la materia da autodidatta sui libri presenti in casa, mi ha fornito gli strumenti per capire e analizzare, ma soprattutto mi ha regalato una chiave di lettura in più che mi consente di comprendere anziché giudicare, abbracciare il dolore altrui invece di respingerlo, e di essere sempre in connessione diretta con l’empatia. Caratteristiche che, purtroppo, di rado riscontro negli altri. Soprattutto nei miei coetanei.
È per questo che quando ho ascoltato parlare per la prima volta i registi Gregorio Sassoli (bolognese, nato nel 1989) e Alejandro Cifuentes (romano, del 1990) mi si è riempito il cuore come se avessi riconosciuto all’istante due anime simili alla mia. Gregorio e Alejandro tempo fa erano partiti con l’idea di girare il loro primo lungometraggio di finzione. Ma proprio durante dei sopralluoghi in piazza dei Cinquecento hanno avuto la folgorante idea di realizzare una sorta di documentario, dopo aver conosciuto un ragazzo di nome Damiano. Entrambi reduci da un precedente periodo di volontariato, avevano già dimestichezza nel comunicare con chi vive ai margini. Ma l’amore a prima vista con Damiano, un istrionico vagabondo polacco, trentacinquenne, con una tristissima storia familiare di abusi e l’animo d’artista, ha dato vita al progetto di girare quel che potremmo definire una via di mezzo tra un documentario e un film: San Damiano. Difatti l’intento era di mostrare la complicata quotidianità vissuta da un giovane, il protagonista, che è riuscito addirittura a trasferirsi abusivamente all’interno della torre più alta delle mura aureliane, come le altre realtà di alcuni clochard che risiedevano nei pressi della stazione, ma senza creare un metaforico recinto che ponesse lo spettatore al di sopra dei protagonisti. Per evitare l’effetto visitatore allo zoo che va a guardare le scimmie in gabbia.
86 minuti ricchi di immagini splendide nella loro purezza, come in un reportage fotografico, ti fanno addentrare nel vissuto di chi, smarrendosi, è come se fosse tornato un po’ bambino. A parlare sono solo loro, i senzatetto. Non ci sono esperti, psicologi, psichiatri, medici, non si sentono neppure le voci dei registi rivolgergli delle domande. Come due piccole lucciole, che in silenzio portano luce, Alejandro e Gregorio si sono aggirati intorno ai personaggi per catturare la loro essenza in totale naturalezza, se pur a volte eccessiva, sboccata, volgare, ma anche dolorosa, drammatica, tenera, disperata. Nel palesarsi della tragedia più cruda, senza neanche un briciolo di giudizio, sono riusciti a regalarci pure dei momenti divertenti, strappandoci qualche risata, o a spegnere la rabbia, sostituendola con l’affetto che si avrebbe con un figlio ancora piccolo che fa una marachella, davanti a scene tipo l’urinare su un motorino parcheggiato. Tutti noi sappiamo che la situazione nel nostro Paese è fuori controllo, che l’assistenza sociale pare essere sparita, e questo dovrebbe portarci a riflettere e a sollevare un dibattito su che società siamo diventati e che tipo di comunità vogliamo continuare a essere: se coesa o completamente scissa. Il rammarico più grande dovrebbe essere destinato al pensiero di che genere di governo molti di noi hanno scelto per rappresentarci, che delle malattie mentali, della povertà, dell’indigenza, ne fa un motivo di vergogna e non una necessità di aiuto. Non si può aspettare, freddi e meschini, che chi non è in grado di essere autosufficiente e che rappresenta un peso per la collettività, muoia di stenti per liberarsi del problema.
Per concludere, Damiano è un ragazzo meraviglioso benché la sua psiche sia compromessa da ciò che gli è stato fatto da bambino. E anche questo è un punto importantissimo da non scordare mai: continuando a non lavorare sul supporto psichiatrico, e non garantendo la presenza dell’assistenza sociale, milioni di bambini verranno abusati ancora e cresciuti in contesti devianti e traumatici. Damiano avrebbe potuto condurre un’esistenza bellissima, piena di successi, di amore, di stabilità e di gioia, se qualcuno si fosse accorto in tempo che le figure genitoriali che gli sono capitate erano inadatte. Quanti altri Damiano vogliamo smarrire? Per il lungometraggio di Sassoli e Cifuentes, tre virgola nove stelle su cinque.