La prima volta che vidi un film al cinema avevo circa cinque anni. Mia madre mi portò, insieme a mia sorella, nella sala parrocchiale della chiesa dei Santi Fabiano e Venanzio, nei pressi di piazza Lodi, a pochi passi da casa. Ero ancora tanto piccola che seduta normalmente su una di quelle poltrone rosse non riuscivo proprio a vedere lo schermo, così mia mamma dovette appallottolare sul mio sedile i giubbotti di tutte e tre e piazzarmici sopra. Da quel momento furono molti i classici della Disney che vedemmo le domeniche pomeriggio e ogni volta fu necessario improvvisare un “trono di stoffa” solo per me in modo da farmi riuscire a guardare una pellicola per intero. Ma per quanto scomodo fosse la mia gioia era sempre incontenibile. Crescendo il legame viscerale che si era creato fra la mia coscienza e centinaia di lungometraggi divenne una questione di sopravvivenza e più il tempo passava più io assaporavo il gusto di sedermi nelle ultime file di una sala vuota a perdermi nelle vite vissute da altri, giusto negli anni in cui il dolore e la disperazione mi stavano facendo perdere il desiderio di vivere la mia. Non so bene come spiegare che cosa mi accade quando me ne sto da sola, nella penombra di una stanza enorme, a fissare un telo bianco sul quale vengono proiettate delle storie fantastiche, ma è come se in ciascuna di esse riconoscessi una parte della mia stessa identità. Certo, se fai un lavoro come il mio il rischio di perdere un po’ l’entusiasmo dinnanzi a cotante pellicole scialbe o scadenti è dietro l’angolo. Eppure ci sono film che ancora oggi mi fanno provare una genuina e spontanea euforia inarrestabile al punto che non riesco a lasciarli andare via, scrollandomeli di dosso, per settimane intere. Alcuni diventano addirittura un pensiero fisso, accaparrandosi una grande fetta del mio cuore pulsante. Ed è proprio quello che mi è accaduto giovedì scorso con “L’amore che non muore”, il terzo lungometraggio del regista Gilles Lellouche, di cui ha coscritto anche la sceneggiatura, tratto dal romanzo del 1997 “Jackie Loves Johnser OK?” dello scrittore Neville Thompson.
Jacqueline, detta Jackie, è una bellissima quindicenne dall’aria elegante e distinta, ma dalla lingua lunga e con una sfacciataggine impunita. È cresciuta col papà in Francia, avendo perso la mamma che era ancora una bambina. Appassionata di musica, del Punk dei Cure e di letteratura classica, dopo essere stata espulsa da un istituto privato, il primo giorno di scuola in un liceo pubblico davanti all’ingresso incrocerà Clotaire, un diciassettenne che ha smesso di studiare e che passa le sue giornate a bivaccare col migliore amico Lionel e il fratello minore. Clotaire è un ragazzo con uno splendido viso che difficilmente si dimentica, che sembra fatto apposta per indurti a desistere anche dinnanzi alla più salda delle reticenze, con due occhi verde smeraldo, profondi come la notte, che spiccano a contrasto con la sua carnagione chiarissima e i capelli neri. Malgrado la sua giovane età, possiede quella bellezza che fa desiderare finanche a una donna adulta di tornare adolescente. È cresciuto in un contesto di abusi, in una famiglia con più bocche di quante se ne potessero sfamare, con un padre violento che lo picchiava a ogni sua nuova marachella. Clotaire ha voglia di indipendenza, ma non di imparare un mestiere, ha la spocchia di chi è dotto, ma senza un sapere, ha lo sguardo da donnaiolo, ma non ha mai toccato davvero le carni d’una ragazza. Abituato a dire e fare ciò che gli pare, l’incontro con Jackie, che lo zittirà senza colpo ferire, umiliandolo davanti a tutti, anziché irritarlo lo farà capitolare. Con la rapidità tipica dell’irrequieta giovinezza, fra i due scoppierà una passione forte come un petardo. Per quanto dissimili, l’uno troverà nell’universo dell’altra la cura ai propri turbamenti finora mai messi a tacere. Ma Clotaire è testardo e la sua smania di soldi e di rivalsa lo porterà a unirsi a una banda di criminali. Non ci vorrà molto tempo affinché lo incastrino per un omicidio che non ha commesso. Dovendo scontare 12 anni di prigione da innocente, allontanerà Jacqueline che ormai si è già smarrita, inghiottita da un tormento insopportabile. Il loro amore, ormai perduto, sembra aver distrutto le esistenze di entrambi; ed è mai possibile sopravvivere a un legame del genere?
L’intera narrazione, ambientata tra gli anni ’70, ’80 e ’90, rappresenta una favola per adulti dove la principessa da salvare non è una dimessa fanciulla silenziosa, ma una donna caparbia che con la sua forza evasiva tenta di salvarsi da sola. E lui non è un cavaliere dall’armatura scintillante, ma un individuo a pezzi che non ha mai imparato a gestire la rabbia, che trova pace soltanto vicino al caos inafferrabile di Jackie. Lellouche, travolto dalle sue stesse emozioni, ha diretto una fiaba dirompente, violenta, carnale, esagitata, a tratti psichedelica, alla quale si perdonano anche le sbavature e i piccoli errori di regia (tipo il fatto che Clotaire da giovanissimo, interpretato da Malik Frikah, ha gli occhi chiari, mentre da trentenne, con l’attore François Civil a vestirne i panni, l’iride è marrone). I due protagonisti, da sempre stanchi della vita, ma che l’assaporano ogni giorno con voracità masticandola a denti stretti, crescono cullando in grembo il medesimo malessere. Un incontro di anime provenienti da due classi sociali assai diverse, ma che alla fine, inspiegabilmente, parlano una lingua identica.
Oltre alle musiche create apposta dal compositore Jon Brion, la divertente colonna sonora è composta da brani dei Cure, dei Deep Purple, di Billy Idol, dei Daft Punk, di Sinéad O'Connor, di Nas e di altri. Questo film mi ha ricordato perché amo così tanto il cinema. Sono uscita dal Lux elettrizzata, con un grosso sorriso che mi attraversava la faccia da orecchio a orecchio, come una bimba alle giostre. Mi ha fatto sognare, facendomi rivedere il modo in cui io vivo i sentimenti romantici: con struggimento e disperazione, in un miscuglio di gioia e dolore che si legano, indissolubili, senza poter esistere l’uno in assenza dell’altro. In un momento in cui cerco, affamata, l’amore della mia vita, in un mondo di uomini deludenti, è stato bello e tagliente al tempo stesso. Quattro virgola due stelle su cinque. Nella speranza di trovare il mio Clotaire.