Che l’istinto materno e il desiderio di essere madre conduca alcune donne a una psicosi delirante, violenta e pericolosa (per sé e per gli altri) ne abbiamo discusso, fino alla nausea, anche e soprattutto nel cinema, con decine di pellicole a riguardo. La maggior parte dell’orrore. Dalla migliore alla peggiore, la solfa è quasi sempre la stessa: una donna che non può avere figli, o che ne ha perso uno, o che non riesce a trovare un compagno con il quale provare a rimanere incinta, si fissa ossessivamente con la povera malcapitata di turno, in dolce attesa o che ha già dei bambini, e, dopo un meticoloso lavoro di manipolazione e isolamento, tenta di portarglieli via, rapendoli. Lo abbiamo visto, ad esempio, ne “La Mano sulla Culla” del 1992 o nel recente “Mothers’ Instinct” (2024) di Benoît Delhomme, remake statunitense de “Doppio Sospetto” (2018) di Olivier Masset-Depasse, a sua volta tratto dal romanzo “Derrière la haine” della scrittrice Barbara Abel. L’argomento risulta così banale che ormai è fra i più usati per le trame dei film destinati al piccolo schermo. Avete presente i thriller della programmazione pomeridiana di TV8 o quelli dei sabati sera estivi su Rai2? Ecco, due su tre parlano di psicopatiche che rapiscono neonati, bimbi e preadolescenti.
E quindi in cosa dovrebbe mai differire “I Play Mother”, il nuovo horror diretto dal regista Brad Watson, uscito nelle sale italiane lo scorso 10 luglio? Anzitutto che mette in discussione, mescolando le carte, i ruoli genitoriali e chi fra uomo e donna dovrebbe badare ai figli. Ma andiamo per ordine: Michelle (Susanne Wuest) e Cyrus (Shubham Saraf) sono una coppia mista e con una discreta differenza di età, dove è lei a essere quella più grande. Entrambi lavoratori, anche qui però è la moglie a svolgere un impiego di spicco. Già in questi due aspetti notiamo come Michelle abbia una posizione di controllo e dominio all’interno del matrimonio, ricordando di fatto un po’ una figura materna per Cyrus, che ha perso ambedue i genitori. Col sogno di allargare la famiglia e avere della prole, ma impossibilitati ad averne, decideranno di fare richiesta di adozione. Gli verranno affidati il piccolo Elijah (Jax James) e la maggiore Mia (Erin Ainsworth), due fratelli che non hanno mai avuto rapporti col padre biologico e che sono appena rimasti orfani della mamma, deceduta per presunta overdose. Benché sia stata Michelle a spingere per ottenere la custodia dei bambini sarà Cyrus a prendersene cura a tempo pieno, mentre lei porterà avanti la sua carriera. Ma da subito nel comportamento di Elijah e Mia ci sarà qualcosa di strano e a tratti inquietante, al punto da portare Cyrus a mettere in discussione il suo desiderio di paternità.
Il personaggio di Michelle, sia a livello estetico che caratteriale, si rende mal digeribile già dai primissimi minuti. È una donna algida, dal volto e dal comportamento sgradevole. L’atteggiamento manageriale nei confronti del consorte, trattato al pari di una colf e di una bambinaia, è insopportabile. Certo è che, a parti invertite, è una realtà che vediamo molto spesso palesarsi nella vita di tutti giorni ed è purtroppo socialmente ben accettata. Benché nella pellicola sia presente anche una componente soprannaturale, tra apparizioni di fantasmi ed eventi paranormali, direi che si tratta più di un horror psicologico che affronta l’annoso tema della devastazione psichica che subisce un genitore abbandonato a se stesso senza aiuti. Michelle ricorda una sorta di mantide religiosa, un parassita che, dopo aver sfruttato il marito per i suoi diabolici piani, se ne sbarazza senza scrupoli di coscienza.
“I Play Mother”, nonostante sotto tanti aspetti manchi di originalità, tra scene viste milioni di volte, non è poi da buttare via. È un lungometraggio discreto e dalle aspettative bassissime, perfetto per una serata estiva al cinema. Avrei preferito però un finale diverso, più per la giustizia, che riportasse in equilibrio le cose. Invece, pure quello, un classico privo di innovazione. 2,9 stelle su 5.