Torna su Netflix Conversazioni con un killer, e questa volta ci porta dritti nella mente disturbata di David Berkowitz, il famigerato "Figlio di Sam" che terrorizzò New York negli anni ’70.
Attraverso interviste audio inedite, documenti d’epoca e testimonianze scioccanti, la docuserie ricostruisce il percorso che ha portato un uomo apparentemente qualunque a diventare uno dei serial killer più temuti d’America.
Una storia fatta di deliri, lettere criptiche, cacce all’uomo e inquietanti interrogativi. Cosa spingeva Berkowitz a uccidere?
Quasi cinquant'anni dopo, il nome "Figlio di Sam" evoca ancora un brivido. Lui è l'uomo che tra il 1976 e il 1977 trasformò le strade di New York in un campo di caccia, catapultando una città nel panico.
Oggi, una nuova docu-serie Netflix, Conversazioni con un killer, il caso Berkowitz, ci fa ripiombare nell'abisso e la lo fa con una prospettiva inedita: la voce stessa dell'assassino.
Attraverso registrazioni di interviste passate e un nuovo dialogo con il killer, la serie tenta di rispondere alla domanda che tormenta da sempre questo caso: perché? Cosa ha trasformato un ragazzo del Bronx in un mostro?
La risposta, secondo la serie, affonda le radici in una ferita primordiale: l'adozione e le bugie che l'hanno circondata.
Berkowitz fu adottato da una coppia amorevole, ma la rivelazione della sua vera origine fu un colpo devastante. Suo padre adottivo gli disse che sua madre biologica era morta di parto e che il padre non lo aveva voluto. "Pensavo che ci fosse un uomo là fuori che mi odiava e che avrebbe potuto cercare di uccidermi per aver causato la morte di sua moglie", racconta Berkowitz nelle registrazioni.
Questo trauma lo trasformò. Il senso di rifiuto si tramutò in rabbia, una furia che riversò prima sulla madre adottiva.
Quando, anni dopo, scoprì che la madre biologica era ancora viva, la verità fu ancora più dolorosa: era nato da una relazione extraconiugale, un "incidente" che suo padre non aveva voluto e non aveva mai accettato. Fu questa la scintilla che accese il fuoco. Si sentiva un "estraneo", uno "stigmatizzato", e la sua rabbia esplose.
Come lui stesso spiega, "La rabbia ha preso il sopravvento per sostituire il senso di colpa".
Il suo bersaglio divenne una proiezione distorta della sua stessa origine. Iniziò a prendere di mira giovani coppie appartate in auto, l'incarnazione di quel "sesso illecito" che lo aveva generato.
"Sentivo che dovevo farlo, come se stessi ottenendo vendetta", afferma. Uccideva per evitare che nascessero altri bambini segnati dal suo stesso livello di alienazione e risentimento.
Il regista Joe Berlinger giustamente si pone una domanda: "Molti bambini scoprono di essere stati adottati, e molti bambini hanno un'infanzia traumatica, e non si trasformano in assassini. Dov'è il confine?". Purtroppo non c'è ancora una risposta.
Berkowitz non era un killer silenzioso. Anzi, bramava l'attenzione. Inviava lettere beffarde alla polizia e ai giornalisti, creando un rapporto perverso con i media che, di fatto, amplificarono il terrore. Questo aspetto, secondo Berlinger, rende il caso incredibilmente attuale, un precursore della nostra ossessione per il true crime.
Nella sua ultima intervista telefonica del 2024, un Berkowitz anziano esprime rimorso.
Dice di aver attraversato un "momento buio", che la sua vita "è andata fuori controllo". Il suo consiglio al se stesso più giovane? Chiedere aiuto. "Avrei potuto rivolgermi a mio padre. Avrei potuto rivolgermi a mia sorella. Ma ho tenuto tutto per me".
È questo il messaggio finale che il documentario vuole lasciare. Non una giustificazione, ma un monito. Un invito a riconoscere i segnali, a non lasciare che la rabbia e il risentimento marciscano in silenzio.
Perché, a volte, il confine tra un'anima tormentata e un mostro può essere più sottile di quanto pensiamo.