Il 2 agosto 1980 una bomba piazzata da terroristi neofascisti nella sala d'attesa della stazione di Bologna esplose, uccidendo 85 persone e ferendone altre 200. Tra loro c'era anche un bambino di sei anni: si chiamava Yuri Zini e sognava di fare il macchinista. Quel giorno era lì con il padre, capotecnico delle ferrovie, per uno dei loro consueti giri in treno.
Una deviazione dell'ultimo minuto gli salvò la vita. Da allora, il rumore di una finestra che sbatte o di un fuoco d'artificio improvviso lo riportano lì. "Non ne ho mai parlato con nessuno per anni, neanche con i miei amici più stretti. Mi sentivo in colpa per essere sopravvissuto, mentre altri accanto a me erano morti", racconta oggi, a 45 anni dall'attentato, a Tag24.
"Era un sabato e io e mio padre, come sempre, avevamo preso un treno dal nostro paese, alla periferia della città, per arrivare in centro. Avevamo fatto un giro, poi ci eravamo riavviati verso la stazione, perché l'indomani saremmo dovuti partire per le vacanze". Arrivarono all'ingresso alle 10.22. "Mio padre si fermò a parlare con un vigile urbano che conosceva". Pochi minuti, che bastarono a salvarli.
"Quando la bomba esplose, alle 10.25, eravamo dentro la biglietteria. Se non ci fossimo intrattenuti con quel signore, saremmo già stati nella sala d'attesa e saremmo morti". Yuri fu sbalzato, comunque, per diversi metri. "Da quel momento ho un vuoto di memoria. La verità su quello che era successo l'ho appresa dopo, confrontandomi con papà e i membri dell'Associazione dei familiari delle vittime".
"Per anni ho vissuto nel silenzio. Mi sono 'sbloccato' quando, con l'Associazione, abbiamo iniziato a girare per le scuole per parlare dell'attentato". Nel 2023, su proposta di una scrittrice, ha poi pubblicato un libro in cui ripercorre la sua storia. Si intitola "Quel che resta della bomba". "È stato difficile - racconta -, ma mi è servito a elaborare il dolore che avevo dentro e tutto il ricavato è andato all'Associazione".
Le tracce del trauma che ha vissuto lo accompagnano ancora. "Se sento rumori forti e improvvisi alle spalle, come una finestra che sbatte, mi blocco per almeno 10-15 secondi. È come se rivivessi quel momento, lo scoppio della bomba, anche se non lo ricordo". Per lo stesso motivo, per molto tempo non è riuscito a salire su un treno. "Ho ricominciato, con fatica. Perché la vita deve andare avanti", dice.
A distanza di 45 anni, Yuri riesce ancora a stento a trattenere l'emozione quando, con la mente, torna a quel giorno. "Tra le vittime c'era Angela Fresu, che aveva tre anni. Siamo nati lo stesso giorno", ricorda. Nel frattempo, gli esecutori materiali della strage hanno ricevuto condanne definitive. Ma restano punti oscuri da chiarire: i mandanti - ad esempio - non sono mai stati individuati con certezza.
"È importante continuare a parlarne, soprattutto con i giovani. Perché un giorno saranno loro a raccontare. Noi stiamo invecchiando, ma la memoria deve restare viva. Non solo per le vittime, ma per la giustizia che ancora manca. Continuare a cercare la verità è un dovere", secondo Yuri.
"Io tutti gli anni - conclude - mi do un obiettivo, qualcosa che mi smuova e che mi dia la voglia di battermi. Il prossimo, se ci riuscirò, è incontrare Francesca Mambro (ex Nar, ndr) per chiederle perché: perché mi ha tolto il mio sogno di bambino di guidare i treni".