«Con l’omicidio di Falcone mio padre non c’entra». A pronunciare queste parole non è un negazionista qualsiasi, ma Giuseppe Salvatore Riina, figlio del boss mafioso Totò Riina, in un’intervista che ha già fatto il giro del web e acceso un feroce dibattito. Secondo il figlio del “capo dei capi”, Totò Riina sarebbe stato “un uomo con la U maiuscola”.
Parole pesanti, pronunciate davanti a microfoni pubblici, che offendono la memoria delle vittime e mettono a dura prova la coscienza civile del Paese. Perché in Italia si continua a dare spazio ai figli dei boss? Perché si permette loro di riscrivere i fatti, negando stragi e sangue, davanti a telecamere e microfoni? La mafia non è folklore. Non è una storia da raccontare in podcast o docuserie con toni ammiccanti. È dolore, morte, omertà, distruzione della giustizia e dello Stato.
Queste parole negazioniste arrivano proprio mentre La7 trasmette la serie "Lezioni di mafia" con il Procuratore Nicola Gratteri, che ogni settimana ricorda agli italiani chi è davvero la mafia, come agisce, e quanto è ancora viva. La narrazione dei figli dei boss rischia di normalizzare la criminalità organizzata, dipingendo i mafiosi come “padri severi” o “uomini d’onore” invece che come responsabili di massacri, estorsioni e omicidi.
Abbiamo il dovere di vigilare. Di difendere la verità storica. Di proteggere le nuove generazioni da una narrazione tossica e fuorviante. Non si può permettere che chi ha vissuto nel privilegio del sangue provi a ripulire la memoria di chi lo ha versato.
A cura di Gaetanina Narciso