Quando pensiamo ai viaggi, immaginiamo avventura, scoperta, libertà. Eppure, nell’epoca dei social, viaggiare è diventato qualcosa di diverso: un mix di esplorazione e rappresentazione, in cui ciò che viviamo si intreccia con ciò che vogliamo mostrare.
Oggi molte mete diventano virali prima ancora di essere visitate e la domanda che ci poniamo non è più soltanto “dove vogliamo andare?”, ma anche “come apparirà questo posto su Instagram?”. La tecnologia ha cambiato il nostro rapporto con il mondo – e, inevitabilmente, il modo in cui ricordiamo i momenti vissuti.
I social ci hanno abituato a condividere tutto in tempo reale. Se vivi un tramonto bellissimo e non lo posti, l’hai davvero vissuto? Questo pensiero, spesso inconscio, condiziona il modo in cui ci muoviamo, osserviamo e ricordiamo. La condivisione diventa parte dell’esperienza stessa. Il rischio? Essere talmente impegnati a fotografare, registrare e raccontare, da dimenticare di sentire.
Ogni volta che fotografiamo un momento, il cervello tende a delegare allo scatto il compito di ricordarlo. È un fenomeno noto come “photo-taking impairment effect”: più fotografiamo, meno ricordiamo con chiarezza. I social amplificano questo effetto: scattiamo di più, guardiamo di meno, viviamo meno nel presente, ricordiamo più la foto che il momento.
I ricordi diventano così sequenze visive curate, non più emozioni spontanee. Riguardare le storie o i post dei propri viaggi può creare l’illusione di riviverli, ma spesso ciò che ricordiamo non è l’esperienza reale, bensì la versione “migliore”, quella che abbiamo scelto di condividere.
Negli ultimi anni sta emergendo una contro-tendenza: il viaggio lento, immersivo, meno orientato all’immagine e più al vissuto. È un modo per recuperare la dimensione autentica del viaggio: assaporare, guardare, ascoltare, senza fretta.
Viaggiare lentamente significa: osservare senza fotografare subito, lasciare spazio all’imprevisto, non correre dietro alle “mete virali”, permettersi di annoiarsi. È un viaggio che non deve dimostrare niente.Una delle ragioni per cui i ricordi dei viaggi erano più vividi in passato è semplice: erano più lenti. Niente notifiche, niente pressioni da condividere, niente distrazioni continue.
Non si tratta di rinunciare alle foto – anche fotografare è un modo di ricordare. Significa però spostare l’intento: non immortalare per mostrare, ma per catturare ciò che ci emoziona davvero. Una foto sentita vale più di cento scatti studiati. La domanda da porsi non è: “Come verrà su Instagram?”, ma “Perché questo momento per me è importante?” Le foto diventano così un diario emotivo del viaggio, non una vetrina.
I social possono arricchire i viaggi, dare ispirazione, far scoprire luoghi che non avremmo mai visto. Il problema nasce quando diventano una lente che distorce e condiziona tutto. Per ritrovare il senso del viaggio serve un piccolo spostamento di prospettiva: dalla condivisione alla connessione, dal mostrare al sentire, dall’immagine perfetta alla vita reale.
Viaggiare non è un contenuto. È un’esperienza che ci cambia, che ci allarga agli orizzonti, che ci insegna a guardare il mondo e noi stessi con occhi nuovi. Quando smettiamo di viaggiare per i social e ricominciamo a viaggiare per noi, recuperiamo un valore dimenticato: la libertà di vivere il mondo senza filtri.
A cura di Francesca Labrozzi
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