Negli ultimi anni le grandi città italiane stanno conoscendo una trasformazione silenziosa ma pericolosa: la nascita di quartieri-ghetto, spesso abitati quasi esclusivamente da comunità musulmane radicalizzate che non hanno alcuna intenzione di integrarsi con il tessuto sociale e culturale del nostro Paese.
Non si tratta più di semplici episodi isolati, ma di una vera e propria strategia di separazione che sta erodendo le fondamenta della convivenza civile.
Chiunque cammini in certe zone periferiche di Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli non può non notare il crescente numero di donne che circolano completamente coperte, con abiti che vanno ben oltre il velo tradizionale.
Non è raro incontrare figure femminili avvolte in un niqab di fatto completo, sotto cui si celano occhiali da sole e mascherina che impediscono la minima identificazione del volto. Quasi un burqa. Non è questione di libertà religiosa: è un chiaro messaggio politico, l’affermazione di un modello di società separato e opposto a quello italiano.
Quando i Comuni concedono spazi per ospitare le festività islamiche, ci si potrebbe aspettare almeno un gesto d’apertura verso la comunità ospitante.
Accade invece il contrario. Invece di unire, si divide ulteriormente: uomini da una parte, donne dall’altra, spesso letteralmente relegate dietro cancelli o barriere improvvisate. Questa visione della donna ridotta a cittadina di serie B stride violentemente con i principi della Costituzione, che garantisce pari dignità e libertà a ogni individuo senza distinzioni.
Eppure, quello che dovrebbe scandalizzare le istituzioni italiane è diventato routine, tollerato e perfino giustificato con la retorica dell’integrazione.
Ma quale integrazione? Se alle donne viene imposto di vivere segregate nei recinti durante gli eventi religiosi, se per strada devono celare il volto in modo da diventare presenze spettrali e invisibili, allora si tratta di una rinuncia alla nostra identità democratica, uno schiaffo ai valori di emancipazione conquistati in decenni di lotte.
Chi pensa che l’Italia sia immune da derive simili a quelle francesi, dovrebbe guardare con attenzione le dinamiche in corso. Le banlieue di Parigi, Marsiglia e Lione non sono esplose dall’oggi al domani: sono state il frutto di anni di arrendevolezza politica, di concessioni a una comunità che ha interpretato la tolleranza occidentale come debolezza. Quartieri interi sono diventati enclavi etniche, fuori dal controllo dello Stato, dove polizia e istituzioni entrano solo con difficoltà.
È lo stesso schema che rischia di replicarsi da noi: comunità chiuse che parlano solo la propria lingua, che seguono solo le proprie regole, che educano i figli in un sistema parallelo a quello nazionale. Il multiculturalismo così inteso non arricchisce: disgrega. Non crea convivenza, ma apartheid.
Se un cittadino vuole vivere in Italia, deve rispettare le leggi italiane. Non c’è spazio per eccezioni culturali che contraddicano la Costituzione. Altrimenti si cade nel paradosso di concedere, in nome di una presunta libertà religiosa, pratiche che negano i diritti fondamentali garantiti a tutti.
Non siamo noi ad aver scelto di introdurre nei nostri quartieri il niqab camuffato da occhiali e mascherina; sono alcune comunità islamiche che pretendono di imporre le proprie usanze, fregandosene delle regole basilari della convivenza civile.
C’è chi liquida queste denunce come allarmismi o discorsi da “intolleranti”. Ma chi difende la nostra democrazia deve avere il coraggio di dire ad alta voce che l’Italia non può diventare terreno di conquista per ideologie incompatibili con i diritti individuali, l’uguaglianza di genere e la libertà di espressione.
Di fronte a questo scenario, il silenzio politico è complicità. Bisogna smettere di regalare concessioni che si ritorcono contro di noi. La tolleranza è un valore solo quando è reciproca: quando viene sfruttata come leva per costruire ghetti e imporre modelli estranei, diventa autodistruzione.
Il nostro Paese deve scegliere se continuare sulla strada della resa culturale, accettando spazi segregati e volti nascosti, o se difendere con fermezza la propria identità, chiedendo a chiunque voglia viverci di rispettare le regole che tutelano la libertà di tutti. Non si tratta di opporsi alle persone, ma a quelle interpretazioni radicali che trasformano interi quartieri in enclave ostili.
L’Italia non può permettersi un futuro alla francese. Prima che sia troppo tardi, serve il coraggio politico di dire: qui valgono le leggi italiane e i principi della nostra Costituzione. Senza deroghe, senza scuse.