Se ami Quentin Tarantino e non hai ancora visto "Django Unchained", puoi recuperarlo su Netflix, dove è tra i film più visti di questa settimana.
Spesso messo in ombra da opere più celebrate come "Pulp Fiction" o "Bastardi senza gloria", questo western revisionista viene frequentemente etichettato come un film diseguale, un'opera ricca di momenti geniali ma appesantita da un'eccessiva indulgenza autoriale.
La critica più comune si concentra sul suo finale, un'ultima mezz'ora che a molti è parsa ridondante e strutturalmente debole. Dopo la sanguinosa e catartica sparatoria a Candyland, che vede la morte sia del Dr. Schultz che del villain Calvin Candie, il film sembra arrestarsi per poi ripartire.
Scopriamo di più su questo finale che fa discutere.
Django viene catturato, nuovamente schiavizzato, per poi fuggire e tornare a compiere la sua vendetta. Perché questa deviazione? Perché allungare un film già di per sé monumentale con quello che appare come un secondo finale?
La risposta non risiede in un vezzo stilistico, ma in una precisa e brutale decostruzione di uno dei cliché più radicati e problematici del cinema hollywoodiano: il "salvatore bianco".
Per gran parte della sua durata, "Django Unchained" sembra aderire perfettamente a questo modello narrativo.
Il Dr. King Schultz, il cacciatore di taglie tedesco interpretato da Christoph Waltz, libera Django dalla schiavitù, lo accoglie sotto la sua ala, gli insegna a leggere, a sparare e a muoversi nel mondo come un uomo libero.
In un'America pre-bellica dipinta come un inferno di razzismo sistemico, Schultz è l'unica figura bianca dotata di una morale moderna, un faro di rettitudine che disprezza la schiavitù.
Per il pubblico bianco, egli rappresenta una figura confortante, l'eroe con cui è facile identificarsi, l'incarnazione della speranza che, in quelle circostanze, anche noi saremmo stati "dalla parte giusta". Se il film si fosse concluso con la prima sparatoria e la fuga di Django, sarebbe stato un impeccabile, ma anche prevedibile, racconto del salvatore bianco.
Django avrebbe ottenuto la sua libertà, ma la sua vittoria sarebbe stata quasi interamente merito del suo mentore.
Il genio di Tarantino, tuttavia, risiede proprio nel costruire meticolosamente questo archetipo per poi demolirlo nel modo più violento e inaspettato. Il punto di rottura avviene nella scena più tesa del film.
L'obiettivo è raggiunto: Broomhilda è stata comprata e il gruppo è pronto a lasciare Candyland. Ma l'orgoglio ferito di Calvin Candie (Leonardo DiCaprio) esige un'ultima umiliazione: pretende che Schultz gli stringa la mano.
È un gesto simbolico, un'affermazione di dominio che Schultz, disgustato dalla crudeltà di Candie, non può sopportare.
In quel momento, la scelta più logica e sicura sarebbe quella di cedere, stringere quella mano e andarsene. Invece, Schultz compie un atto tanto emotivamente catartico quanto strategicamente suicida: estrae una Derringer e spara a Candie a bruciapelo.
Con quel singolo proiettile, Schultz non uccide solo Candie, ma annienta anche il proprio ruolo di salvatore. Le sue ultime parole, "Non ho resistito", sono l'epitaffio del suo egoismo. Incapace di controllare le proprie emozioni, condanna Django a morte certa e Broomhilda a una vita di schiavitù. In un istante, il salvatore diventa il sabotatore.
È per questo che la cattura di Django è un passaggio narrativo assolutamente essenziale. Deve esserci una conseguenza tangibile e devastante per la scelta di Schultz. Se Django fosse riuscito a farsi strada a colpi di pistola fin da subito, l'atto impulsivo del suo mentore sarebbe stato, in fondo, perdonato dalla sceneggiatura, privato del suo peso morale.
Ed è proprio in questa seconda prigionia che il film trova il suo vero significato. Quando Django riesce a fuggire per la seconda volta, lo fa da solo. Non c'è nessun mentore bianco a guidarlo, nessuna figura paterna a indicargli la via.
Usando solo la sua astuzia, la sua intelligenza e la sicurezza acquisita, si libera dalle catene per la seconda e ultima volta. Il suo ritorno a Candyland non è più solo una missione di salvataggio, ma l'atto finale di un'autodeterminazione completa. È la storia delle origini di un supereroe la cui liberazione non è un dono ricevuto, ma un diritto conquistato con le proprie mani.
Questo è tutto tranne che un finale ridondante. Si tratta della chiave di volta del film. Assicura che il titolo, "Django Unchained", non sia solo un nome, ma una promessa mantenuta. Django non viene "scatenato" da Schultz all'inizio del film; diventa veramente e completamente scatenato solo quando si libera, da solo, dall'eredità e dal fallimento del suo mentore.
Tarantino non si limita a evitare il cliché del salvatore bianco; lo capovolge, lasciando che il vero eroe si alzi dalle ceneri, finalmente e gloriosamente libero.