Il presidente americano Donald Trump si sta già muovendo per assicurare una via d’uscita a Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano, su cui pende un mandato d'arresto per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale, potrebbe non dover rispondere del massacro di civili a Gaza.
La visita di Trump alla Knesset, il massimo organo legislativo israeliano, è stata accolta da un clima carico di aspettative e tensioni. Fonti diplomatiche confermano che dietro ai convenevoli pubblici, il leader americano avrebbe chiesto esplicitamente a Herzog di valutare la grazia per Netanyahu, bloccando ogni ulteriore procedura legale sulle inchieste di corruzione che da anni lo riguardano.
Rivolgendosi a Herzog nel suo discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano, Trump ha affermato:
Il presidente americano ha liquidato la questione dei presunti regali ricevuti da Netanyahu – come costosi sigari e bottiglie di champagne offerti in cambio di favori – dicendo che non gli importa nulla di questi dettagli.
Un favore personale che va oltre la sfera giudiziaria e investe la geopolitica: Trump considera Netanyahu una pedina indispensabile per la stabilità regionale e per la tenuta delle alleanze tra USA e Israele.
Non solo. Le indiscrezioni provenienti da ambienti negoziali suggeriscono che l’atteso accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas – ora al centro di trattative febbrili – potrebbe contenere una clausola “non scritta”: garantire che Netanyahu non sarà perseguito né da tribunali israeliani né dalla Corte Penale Internazionale per quanto accaduto a Gaza.
In altre parole, nessuna “Norimberga” contro il leader israeliano, nonostante le accuse sempre più pesanti e circostanziate di genocidio e crimini umanitari rivoltegli da varie organizzazioni internazionali.
Trump, già in campo per garantirgli ogni scudo possibile, sembra voler scrivere una nuova pagina di storia: quella in cui la pace coincide con la rimozione di ogni ostacolo giudiziario per i vincitori, mentre le vittime devono accontentarsi delle briciole della diplomazia.
L’ipotesi di una via d’uscita in stile grazia, scambiata con una tregua e un accordo politico, ha già fatto insorgere attivisti umanitari e giuristi. Dalla Striscia di Gaza a New York, le ONG denunciano il rischio che la pace (o meglio, l’apparente soluzione diplomatica) diventi solo lo strumento per garantire impunità agli architetti dell’operazione militare più discussa degli ultimi anni.
Trump, da par suo, non fa mistero delle sue intenzioni: Netanyahu per lui rimane “un grande leader”, degno di protezione e di considerazione speciale anche dopo le stragi e le denunce della comunità internazionale.
Le domande sono molteplici: ci sarà davvero una clausola segreta in grado di blindare Netanyahu da futuri processi? L’UE resterà a guardare davanti a questa deriva del diritto internazionale? E soprattutto, quale messaggio viene inviato al mondo e agli altri leader: che il potere vale più della giustizia, e il prezzo della pace è l’impunità per i responsabili dei massacri?
Mentre la diplomazia americana e israeliana lavora per chiudere il cerchio sull’accordo, i vertici europei mantengono su queste trattative un silenzio inquietante. L’ipotesi che il cessate il fuoco includa di fatto una garanzia di impunità per Netanyahu, senza processi né sanzioni, non trova opposizione né a Bruxelles né a Berlino, nonostante il monito di numerosi giuristi e attivisti per i diritti umani.
La retorica delle Nazioni Unite e dei governi occidentali, da mesi, continua a oscillare tra la richiesta di “giustizia per Gaza” e la volontà di normalizzare il rapporto con Israele sotto la spinta statunitense. Il rischio concreto è che, ancora una volta, interessi di parte e strategie di sicurezza prevalgano sulle norme universali e sui principi del diritto internazionale.