Ogni volta che si parla di Mondiali e di Nazionale italiana si tira fuori la solita parola: blasone. Quattro stelle sul petto, una storia gloriosa, una tradizione di campioni. Tutto vero. Ma oggi una domanda brucia più di tutte: con la squadra attuale, quel blasone è ancora rappresentato?
Perché se basta definire grandi giocatori elementi come Bastoni, Dimarco, Frattesi o Politano, Locatelli, Di Lorenzo (solo per citaren alcuni dei calciatori che fanno parte della selezione azzurra in questo momento. ma è chiaro che il riferimento si estende anche a tutti gli altri) allora significa che ci stiamo raccontando una favola. E una favola non basterà certo per evitare l’ennesima figuraccia mondiale.
L'Italia sembra aver accettato l’idea che calciatori “buoni” possano essere spacciati per fuoriclasse solo perché non esistono alternative migliori.
Questo non è un momento di crescita: è un momento di rassegnazione.
Quando Bastoni viene definito pilastro assoluto, Dimarco viene elevato al rango di top mondiale, Frattesi diventa simbolo del centrocampo moderno e Politano viene considerato un esterno di livello internazionale, significa che l’asticella si è abbassata in modo imbarazzante.
La realtà è semplice: questa squadra è tecnicamente mediocre. Non ci sono leader tecnici, non ci sono giocatori realmente capaci di cambiare una partita da soli, non c’è nessuno che in un Mondiale possa creare la differenza tra tornare a casa e alzare una coppa.
Eppure, per proteggere un sistema fragile, si continua a ripetere che i giocatori sono “forti”, “affidabili”, “in crescita”. Peccato che ogni volta quando c'è un confronto con nazionali di un certo livello questa narrazione evapora.
La maglia non si vince per osmosi. Il blasone non serve se non è accompagnato da talento, personalità, fame.
E oggi l’Italia vive più di ricordi che di presente. Le notti magiche della truppa di Azeglio Vicini, la spedizione americana dei ragazzi di Sacchi, la vittoria mondiale sotto la guida di Lippi e prima ancora le altre affermazioni con Bearzot e Pozzo CT unitamente a quella recente di Mancini all'Europeo stanno finendo nella vetrina dei cimeli, mentre il campo oggi e da qualche anno a questa parte racconta una storia diversa: quella di una Nazionale che si accontenta di raccogliere quello che le resta da una coltivazione di risorse sterile.
I vivai delle squadre di Club sono zeppi di stranieri e la ricerca dei talenti si basa solo ed esclusivamente su stazza fisica e potenza, non più sul talento cristallino, sulla tecnica e sulle genialate di ragazzi che seppur bassi di altezza possono portare qualità.
Baggio così come Zola (tanto per fare un esempio pratico) non erano possenti e nemmeno detenevano un fisico robusto tanto meno potente eppure nella storia della nostra nazionale hanno lasciato il segno.
Con un gruppo così sopravvalutato, il vero rischio è partecipare solo per evitare polemiche, per “esserci”, per obbligo morale. Ma il Mondiale non perdona:
Se l’Italia pensa che basti la grinta per colmare il divario tecnico con squadre che schierano fuoriclasse veri, allora non ha capito la lezione degli ultimi dieci anni.
Se l’Italia vuole risollevarsi, deve avere il coraggio di dirlo a voce alta: i giocatori attuali non bastano. Serve di meglio. Serve di più. E soprattutto:
L’Italia ai Mondiali è un diritto solo sulla carta. Nel calcio moderno si partecipa perché si merita, non perché si ha storia.
E oggi la realtà è brutale: con questa squadra dai valori tecnici così mediocri, il blasone non basta più.
Fino a quando continueremo a chiamare campioni giocatori che altrove sarebbero semplici comprimari, l’Italia non tornerà mai grande. E questa è la verità che nessuno vuole ammettere.
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