Finché il caporalato restava confinato alla filiera agricola, lo si considerava - pur nella sua gravità - un fenomeno quasi “tradizionale”, oggetto di indignazione pubblica ma percepito come distante. Ma quando episodi di sfruttamento emergono nella produzione dei simboli dell’eccellenza italiana, nella moda del lusso, la prospettiva cambia radicalmente.
Eppure il fenomeno continua a infiltrarsi anche in questo settore, nonostante controlli sempre più serrati. Perché accade? Quali falle nella catena produttiva permettono ancora l’ingresso di manodopera sfruttata e lavoro nero?
Le nuove iniziative della Procura di Milano, coordinate dal pm Paolo Storari, lo mostrano con chiarezza. L’indagine - come riportato da Il Sole 24 Ore - coinvolge tredici grandi marchi e si inserisce nel quadro del D.Lgs. 231/2001, che obbliga le aziende ad adottare modelli organizzativi capaci di prevenire reati lungo l’intera filiera. Un obbligo che, nel caso della moda, significa monitorare non solo la produzione interna, ma anche la rete complessa di subappalti dove più spesso si annida lo sfruttamento.
Forse era solo questione di tempo prima che il vaso di Pandora venisse scoperchiato. Un colpo che, per l’Italia, fa rumore. E infatti, nel giro di poche ore, le diverse agenzie di stampa hanno ricostruito dati, nomi e portata dell’iniziativa giudiziaria.
Secondo quanto riportato da RaiNews, la Procura di Milano ha emesso tredici ordini di consegna documentale nei confronti di altrettanti marchi della moda e dello sportswear.
Un provvedimento che tocca anche maison di primo piano, come Prada, Gucci e Dolce & Gabbana, oltre ad altre importanti realtà italiane e internazionali.
Come precisano gli atti citati dalle testate, non si tratta di accuse dirette. L’obiettivo è verificare la solidità dei sistemi di controllo adottati lungo la catena degli appalti, cioè capire se i modelli organizzativi previsti per legge abbiano funzionato o presentino falle.
Il provvedimento nasce dal fatto che, in altri filoni investigativi, sono stati rinvenuti capi riconducibili a queste maison all’interno di opifici clandestini. Un segnale che ha spinto a estendere il raggio d’azione per mappare la filiera, dal brand ai laboratori.
La Procura definisce questa iniziativa una “misura light”: un intervento preliminare, concepito per permettere alle aziende di correggere eventuali criticità prima di passare a strumenti più incisivi.
Il rischio più insidioso del caporalato nel settore della moda si annida nel ciclo produttivo, cioè nella fitta rete di appalti e subappalti. È in questi passaggi intermedi - spesso invisibili al consumatore - che, come riportato da Business Online, si concentrano le vulnerabilità maggiori.
Le attività dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro hanno fotografato una realtà preoccupante: lavoratori cinesi impiegati in opifici-dormitorio, privi di sicurezza e di qualunque tutela; ambienti di produzione senza autorizzazioni; capi griffati già pronti per la distribuzione sequestrati in laboratori irregolari; salari ben al di sotto dei minimi previsti dalla legge.
Un quadro che mostra come, lungo la catena degli appalti, anche un prodotto di lusso possa passare attraverso segmenti di sfruttamento estremo, rimanendo però invisibile ai grandi marchi.
Le imprese coinvolte hanno assicurato piena cooperazione, avviando nel frattempo un rafforzamento delle proprie procedure interne.
La documentazione richiesta dalla Procura - come riportato dal Corriere della Sera - comprende i modelli organizzativi 231, le relazioni degli Organismi di Vigilanza, i sistemi di tracciabilità della filiera, le evidenze delle attività di formazione sul rischio di sfruttamento e i verbali dei Consigli di Amministrazione relativi alla gestione del rischio.
E molto altro ancora: un pacchetto di richieste ampio, pensato per scandagliare ogni livello della filiera produttiva.
L’obiettivo della Procura è verificare se queste misure siano davvero idonee a prevenire fenomeni di caporalato, come previsto dal D.Lgs. 231/2001.
In caso contrario, potrebbero essere adottate misure più severe: dalle interdittive ai commissariamenti, fino ad arrivare ad azioni di natura penale.
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