C’è un gesto che ormai facciamo quasi senza accorgercene: prendere il telefono, aprire la fotocamera, registrare. Un concerto, un tramonto, una cena, una risata. Prima ancora di vivere un momento, lo stiamo già trasformando in contenuto. Non lo facciamo solo per mostrarlo agli altri. Spesso lo facciamo per noi, per pura di dimenticare, per dare valore a ciò che stiamo vivendo. Eppure, mentre documentiamo tutto, qualcosa rischi di sfuggirci. Non in modo drammatico, ma silenzioso.
Viviamo in un’epoca in cui esistere sembra coincidere con il lasciare traccia. Una foto, un video, una storia. Documentare è diventato un modo per dire: io c’ero. Scattare o registrare non è solo un atto tecnico, è un gesto simbolico. Serve a fissare il momento, a renderlo reale, a dargli un peso. Senza quella traccia, a volte, sembra quasi che l’esperienza sia incompleta.
Usare il telefono durante un’esperienza cambia inevitabilmente il nostro modo di viverla. Quando inquadriamo qualcosa, una parte della nostra attenzione si sposta: non siamo più solo dentro il momento, ma anche fuori, osservatori di ciò che accade.
In quel passaggio sottile perdiamo qualcosa: la sensazione piena di essere lì, senza mediazioni. Guardare uno spettacolo attraverso uno schermo non è lo stesso che guardarlo con gli occhi. Anche se siamo presenti fisicamente, mentalmente siamo già un passo indietro. La presenza non sparisce, si divide.
Una parte di noi vive l’esperienza, l’altra pensa a come catturarla, a se la luce è giusta, a se l’inquadratura funziona. E’ una presenza spezzata, multitasking, mai del tutto immersa. Questo non significa che documentare sia sbagliato, ma anche farlo continuamente ci abitua a stare nel mondo a metà. Sempre pronti a passare dal vivere al registrare.
Uno dei motivi per cui documentiamo tanto è la paura di dimenticare. Pensiamo che fotografare o filmare significhi ricordare meglio. In realtà spesso accade il contrario: più affidiamo la memoria allo schermo, meno la alleniamo dentro di noi. Quando sappiamo che un momento è “salvato” nel telefono, il cervello si rilassa. Non si impegna a registrare dettagli, emozioni, sensazioni. Il ricordo diventa esterno, non più interno. Così, col tempo, ricordiamo più le immagini che le emozioni. Ricordiamo la foto di un viaggio, ma non l’odore dell’aria, il rumore delle strade, la sensazione di quel momento preciso.
C’è una differenza sottile ma importante: vivere qualcosa per ricordarla, o vivere qualcosa pensando a come verrà ricordata. Nel secondo caso, l’esperienza nasce già filtrata, pensata per essere vista dopo, da noi o da altri. E’ qui che il confine si fa delicato. Quando il bisogno di testimoniare diventa più forte del desiderio di sentire, rischiamo di trasformare la vita in una raccolta di prove, più che in una serie di esperienze.
Essere presenti non significa rifiutare la tecnologia, ma usarla senza farci usare. Significa concedersi il lusso di vivere qualcosa senza pensare a come apparirà, a come verrà raccontata. Guardare un tramonto senza fotografarlo non lo rende meno reale. Anzi, spesso lo rende più nostro. La vita vista attraverso uno schermo è comoda, rassicurante, controllabile. Ma la vita vissuta senza filtri è più intensa, più fragile, più vera.
Documentare non è il problema. Il problema nasce quando documentare diventa il centro, e vivere lo sfondo. Forse il vero equilibrio sta qui: usare lo schermo come strumento, non come intermediario costante. Lasciare che alcune cose passino senza essere catturate, sapendo che non tutto ciò che conta deve essere salvato. A volte, la memoria più preziosa è quella che non possiamo rivedere, ma solo sentire.
A cura di Francesca Labrozzi
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