Capita spesso che dinnanzi a un fatto mostruoso commesso volontariamente da qualcuno si utilizzi il termine “disumano”, come a non voler accettare che nella natura dell’uomo possa esistere una profonda e oscura malvagità. Ma per quanto la coscienza collettiva sia pervasa da una sorta di cecità condivisa, che impedisce di ammettere a gran voce che il male regna in ciascuno di noi, basterebbe guardarsi indietro per rendersi conto che non c’è niente di più umano della bassa, vile, sudicia malignità. Sin dalla notte dei tempi le persone sono state capaci di commettere atroci e raccapriccianti nefandezze ai danni dei propri simili. L’inferno non è un luogo ultraterreno, ma si trova in quel luccichio nello sguardo di chi ha appena deciso di lasciarsi guidare dagli istinti sadici di perversa crudeltà.
La mente di ogni essere umano è divisa fra punti di luce e punti di ombra, la differenza viene determinata nel momento in cui scegliamo da quale lato farci governare. Pensate alla figura di Lucifero: al di là della fede cattolica, non c’è nulla che rappresenti meglio l’umanità. Lucifero era l’angelo migliore del Paradiso; il più bello, il più devoto a Dio. Ma un giorno l’ambizione, l’invidia, la cattiveria l’hanno trasformato in un mostro che incute terrore soltanto a nominarlo. Per quanto sia difficile da ammettere, chiunque potrebbe diventare la versione peggiore di se stesso. Certo, non sto dicendo che la bontà non esista o che tutti siamo uguali nella miseria d’animo, ma che l’orrore ci è più vicino di quanto non si voglia accettare.
Prendiamo, ad esempio, la Seconda Guerra Mondiale e la Germania di Hitler: dopo la resa dei nazisti, per decenni il popolo tedesco ha tentato di negare le sue colpe riguardo all’Olocausto, dichiarando che quando il Führer fu eletto non erano a conoscenza del suo piano di sterminio di massa. Ma era davvero così? Pensate che prima delle elezioni quasi ogni cittadino tedesco possedeva in casa una copia del Mein Kampf, dove la paranoia delirante di Hitler nei confronti degli ebrei veniva espressa proprio da lui, peraltro con uno stile letterario sgrammaticato e poco colto. Eppure il desiderio di rivincita dopo la sconfitta della Prima Guerra Mondiale e il bisogno di attribuire a qualcuno la colpa del malcontento e del livello di povertà generale fu egoisticamente più forte dell’istinto di salvare milioni di vite innocenti.
Göring stesso, il comandante supremo della Luftwaffe e successore designato del Führer, aveva tentato per diverso tempo di far credere di non essere stato consapevole di ciò che avveniva nei campi di concentramento. Il che ovviamente era falso. Le sue decisioni belliche furono determinanti nel corso dell’eccidio, possedendo una grandissima parte di responsabilità. Ma torniamo indietro per un attimo all’8 maggio del 1945: Hitler si era suicidato, sparandosi, da appena una settimana, precisamente il 30 aprile. La Germania aveva firmato la resa incondizionata e in Europa la guerra era finita. A quel punto le forze alleate, formate da Stati Uniti, URSS, Regno Unito e Francia, iniziarono a catturare i leader nazisti rimasti in vita. Uno su tutti Hermann Göring. Ma anche Rudolf Hess, Karl Dönitz, Alfred Rosenberg, Wilhelm Keitel e molti altri.
Portati a Norimberga dall’esercito americano in attesa di essere processati, a quel punto fece il suo ingresso il dottor Douglas Kelley, psichiatra e ufficiale degli Stati Uniti. Chiamato a periziare i 24 imputati prima dell’inizio del processo (due furono esclusi: uno per suicidio e uno per anzianità e problemi di salute), per determinare se fossero capaci di intendere, Kelley si era poi ritrovato suo malgrado in una strana vicinanza intellettuale con Göring, che lo aveva devastato a livello psichico, facendolo dubitare di se stesso negli anni successivi. Questa esperienza lavorativa era stata per lui così traumatizzante e rovinosa che lo aveva spinto in un primo momento a scrivere un libro, intitolato Ventidue celle a Norimberga (1947), un saggio storico-testimoniale che analizza le personalità dei detenuti nazisti esaminati, ma anche la loro vita in carcere e i comportamenti quotidiani, concentrandosi maggiormente sulla “normalità” delle loro abitudini, per dimostrare quanto la banalità del male appartenga al genere umano. E in un secondo momento, il 1° gennaio del 1958, a stroncare la sua esistenza col cianuro, stessa modalità scelta da Göring nel 1946, la notte prima di venire giustiziato a morte.
Lo scambio intellettuale e umano che si era creato fra i due, nonostante il profondo disprezzo di Kelley per il comandante, è ancora oggi assai disturbante anche per chi lo esamina dal di fuori. Nel 2013 il giornalista e scrittore californiano Jack El-Hai ha pubblicato Il nazista e lo psichiatra, un saggio storico-biografico sul bizzarro transfert avvenuto fra Kelley e Göring. Il cineasta statunitense James Vanderbilt, rimasto affascinato dalla vera storia dietro gli scritti di El-Hai, ha deciso di farne un lungometraggio del quale ha firmato anche la sceneggiatura. L’intento del regista era quello di addentrarsi nell’ordinarietà del male al di là dei suoi eccessi e di fornire allo spettatore il punto di vista psicologico della faccenda, non tanto gli aspetti giudiziari come invece già fatto in altre opere precedenti. La più nota Il processo di Norimberga (2000), la miniserie americana con l’attore Alec Baldwin nei panni di Robert H. Jackson, il Procuratore capo degli Stati Uniti all'epoca.
Il Norimberga di Vanderbilt ha il focus puntato non sul processo, ma sul tempo che lo precede. Il nocciolo della trama è l’analisi psicologica, soprattutto di Göring, per entrare a fondo nella psiche deviata di un narcisista patologico. Questo è il punto intorno al quale ruota il film, indagarsi su come sia stato possibile che una persona abbia preso parte, in piena coscienza, a un simile abominio. La pellicola drammatica è corredata da un cast di pregio, dove però spiccano le prove attoriali di Russell Crowe, nel ruolo di Hermann Göring, e quella di Rami Malek, nella parte del dottor Douglas Kelley. Il duo Crowe-Malek è straordinario. Forse, addirittura, questa è stata la miglior interpretazione di sempre di Russell Crowe. Il film termina con una citazione del filosofo Robin G. Collingwood: «L'unico indizio su ciò che l'uomo può fare è ciò che l'uomo ha già fatto». E forse su questo dovremmo proprio interrogarci tutti. Per Norimberga: 4 stelle su 5.
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