Il centrodestra ha vinto. L’esito è lapalissiano e non lascia alcun spazio ad interpretazioni. C’è l’astensionismo, vero, ed è altrettanto vero che è probabile abbia colpito gli elettori di centrosinistra in forma maggiore, ma questo non minimizza assolutamente la prestazione della compagine di governo. Attilio Fontana si conferma presidente della Regione Lombardia e Francesco Rocca, vincendo su Alessio D’Amato, ha cambiato la guida della pisana portandola a destra dopo 10 anni di governo Zingaretti.
Si è parlato molto spesso, nel mese che ha portato al giorno del voto, di un potenziale piccolo rischio in casa centrodestra: quello di una performance eccessivamente esaltante da parte di Giorgia Meloni. Il rischio era quello di minare la stabilità della coalizione e di attirare malumori di Lega e Forza Italia. Così è la politica: ottenere posizioni di governo non basta, è necessario anche garantire la salubrità e la tenuta dei partiti che si guidano. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, in questo senso, hanno evidentemente patito l’esito del 25 settembre scorso: Meloni li ha staccati, di tanto, ottenendo un’automatica investitura che l’ha portata ad essere – senza dover passare per interni passaggi democratici – l’inquilina di Palazzo Chigi. Qualche insofferenza di Berlusconi si è addirittura ravvisata nelle primissime battute, ricordiamo senz’altro il siparietto – con botta e risposta a distanza – relativo alle nomine di governo. Più ligio è stato Matteo Salvini che da quando è Ministro ha assunto un profilo comunicativo di assoluto allineamento al governo: parole tante come sempre ma posate e mai polemiche verso gli alleati. Ma è evidente che, internamente, anche la Lega ha necessità di guardare i suoi interessi. Specialmente se questi si radicano nella regione più leghista d’Italia, la Lombardia. Ci siamo chiesti in molti: cosa accadrebbe se Meloni dovesse aggiudicarsi elettori a discapito della Lega? La coalizione sorride anche in questo senso perché il carroccio ha ben figurato nel suo fortino: 16,5% a cui va aggiunto il 6% della lista civica di Fontana che è comunque un candidato leghista. Insomma, a Meloni è riuscito un capolavoro: ha vinto, ha confermato la sua leadership ed ha tenuto salda la coalizione senza cannibalizzare i suoi compagni di governo. Le mani del Premier non si sono macchiate di sangue fratricida e le compagini, forti del risultato, possono proseguire nella loro esperienza.
Interessante, dopo le elezioni regionali, capire anche cosa succede tra gli sconfitti. Il mood delle opposizioni è molto simile a quello ad uno stallo alla messicana: ognuno punta la pistola contro l’altro, nessuno spara, ed il governo avanza indisturbato. Sia Carlo Calenda che Giuseppe Conte hanno fallito nelle loro operazioni (la prima lombarda la seconda laziale) di correre in solitaria per provare a svuotare il Partito Democratico. Donatella Bianchi non è andata oltre l’11%, peggio va a Letizia Moratti che rimane addirittura fuori dall’assise lombarda. L’effetto paradossale è stato quello di ridare linfa al Pd che può vantarsi, almeno, di aver confermato il risultato delle elezioni politiche. E questo in una fase in cui il partito di via Nazzareno è in piena riorganizzazione per via del congresso in itinere. Il Pd, nonostante tutto, si conferma l’unico partito di opposizione ad avere una forza inerziale: un elettorato fedele, uno zoccolo duro, un bacino di voti di partenza. M5s e Terzo Polo accusano il colpo e provano a ripartire: il primo organizzando i coordinatori provinciali (è evidente che se a livello nazionale si va bene, territorialmente c’è da migliorare) il secondo rilanciando l’idea del partito di centro socialdemocratico e liberale. Ma comunque ognuno per conto suo. L’opposizione fa la guerra ma la fa al suo interno, senza organizzare una vera alternativa alla coalizione di governo.