Il 13 gennaio 2024, gli elettori taiwanesi hanno eletto Lai Ching-te come prossimo presidente di Taiwan. Lai ha ottenuto il 40,1 per cento dei voti mentre il suo rivale Hou Yu-ih del Kuomintang ha ottenuto il 33,5 per cento. Il candidato del Partito Popolare di Taiwan, Ko Wen-je, ha ricevuto il 26,45 per cento. Il Kuomintang ha conquistato la maggioranza nel Parlamento taiwanese. Lai Ching-te dovrà affrontare un parlamento diviso nei prossimi otto anni.
Tag24 ha intervistato Lorenzo Lamperti, direttore di China Files, un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici.
Come sono gli umori a Taiwan dopo le elezioni? Quali sono state le reazioni della gente del posto al risultato elettorale?
Qua non c'è stata la sensazione che è stata raccontata soprattutto all'esterno di aver compiuto una scelta decisiva. È però una narrazione che effettivamente ha il suo fondamento. Negli ultimi anni le tensioni fra Taipei e Pechino sono aumentate in maniera piuttosto decisa, soprattutto è aumentata la rivalità e la competenza strategica tra Stati Uniti e Cina che si ripercuote inevitabilmente sullo stretto di Taiwan. La maggioranza dei cittadini taiwanesi non ha avuto la sensazione di aver fatto una scelta, come diceva Kuomintang il principale partito d'opposizione, tra la guerra e la pace. Allo stesso modo non ha nemmeno avuto nemmeno la percezione, come invece diceva il Partito Progressista Democratico, Dpp di Lai Ching-te, che è il vincitore delle elezioni presidenziali, di aver fatto una scelta tra la democrazia e l’autoritarismo.
Nonostante quello che può trasparire all'esterno, i taiwanesi sono andati alle urne soprattutto su temi interni. Anche questa tensione che teoricamente ci dovrebbe essere dopo il risultato elettorale di sabato non traspare minimamente. A torto o a ragione, non vuol dire che abbiano motivo di essere così calmi e tranquilli, ma nella realtà dei fatti a Taiwan non si respira nessun tipo di tensione né sul fronte interno, dove comunque i partiti di opposizione hanno riconosciuto in maniera molto rapida la sconfitta, cosa che abbiamo purtroppo imparato a capire che non sia così scontata in occidente, e non si respira una preoccupazione per una reazione spropositata da parte di Pechino nel breve termine.
Abbiamo visto che Lai è diventato presidente di Taiwan ma che il suo partito non ha ottenuto la maggioranza. Quali scenari si possono aprire vista questa situazione?
Sì, questa è un po' una novità, nel senso che è una delle prime volte che c'è un terzo incomodo molto forte alle elezioni presidenziali taiwanesi. In questo caso si tratta di Ko Wen-je del Partito Popolare, ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei che ha attirato una buona parte dell'elettorato più giovane. Il risultato è stato quello di aver favorito Lai a vincere le presidenziali. Perché dico favorito? Perché l'elettorato del DPP ha comunque dimostrato una certa stanchezza nei confronti del partito di riferimento. Alle presidenziali il DPP ha perso oltre due milioni e mezzo di voti rispetto al 2020. Una possibile candidatura unitaria tra l’opposizione, quindi Koumintang e Ko Wen-je stesso, avrebbe probabilmente portato ad una vittoria dell'opposizione. C'era anche stato un accordo che poi si è rotto prima di depositare le candidature ufficiali lo scorso novembre.
Per quanto riguarda il risultato delle legislative, anche qui, per la prima volta dopo otto anni, il DPP perde la maggioranza assoluta. L'unico esempio che abbiamo nel passato è il primo governo del DPP, quello tra 2000 e 2008. In quel caso, in entrambi mandati, il presidente Chen Shui-bian non aveva la maggioranza parlamentare. Che cosa è successo in quel frangente? È successo che quasi tutte le riforme che Chen Shui-bian avrebbe voluto portare avanti sono state bloccate e messe in una fase di stallo dall'opposizione. Però c'è una differenza: In quel caso l'opposizione era esclusivamente dei Kuomintang che quindi controllavano il Parlamento. In questo caso, c’è il Kuomintang che è il primo partito in Parlamento con un seggio in più rispetto al DPP, ma appunto c'è questo terzo attore che rappresenta un'incognita. Con solo quegli otto seggi, il Partito Popolare sarà l'ago della bilancia. Bisogna capire effettivamente da che parte si schiererà. Probabilmente - questo è il mio pronostico - l'idea iniziale di Ko Wen-je sarà quella di sfruttare al massimo questo ruolo così da poter essere l’uomo copertina, diventare proprio l'uomo decisivo della politica taiwanese nei prossimi anni ed accentrare sempre più l'attenzione su di sé per candidarsi con ancora maggiori speranze alle presidenziali del 2028. A cosa questo possa portare è una grossa incognita. Lo vedremo.
Il primo test è sulla nomina del presidente del Parlamento che avverrà nelle prossime settimane. C'è un candidato del Kuomintang e c'è un candidato del DPP, vedremo se Ko Wen-je tenderà a formalizzare una coalizione all'interno dell'opposizione. In quel caso possiamo aspettarci grandi difficoltà per il DPP a governare. Se invece tarerà di volta in volta la sua posizione, in questo caso, soprattutto sulle cose più sensibili, tipo il budget di difesa, ci si può aspettare che Ko Wen-je giochi un ruolo responsabile.
Può davvero aprirsi un nuovo fronte caldo nel Mare Cinese? Che conseguenze economiche potrebbe avere uno scontro fra Cina e Taiwan?
Allora diciamo che la questione Taiwan non è nuova. Ce ne siamo accorti in maniera maggiore negli ultimi anni perché da una parte c'è una Cina più forte sia a livello diplomatico che a livello militare e ovviamente a livello economico. Le ambizioni cinesi su Taiwan sono sempre state presenti da più di 70 anni. Si sono manifestate con maggiore chiarezza perché la Cina si sente più forte e più sicura di sé. Ha influito anche questa competizione strategica con gli Stati Uniti. Da una parte, Pechino vede un'escalation diplomatica, mi riferisco alla telefonata nel 2016 fra Trump e il presidente uscente Tsai Ing-wen, oppure la visita di Nancy Pelosi nell'agosto 2022. Dall’altra parte, Washington, interpreta le manovre di Pechino come un'escalation militare volta a cambiare lo status quo. Se ci sarà una crisi non sarà esclusivamente legata al risultato di queste elezioni che si inseriscono in un trend molto più ampio, dove Pechino ha già dimostrato, sia su questo tavolo che su altri tavoli, che è in grado di giocare le sue carte su lungo periodo.
Il DPP comunque ha perso 2 milioni e mezzo di voti alle presidenziali, ha perso le legislative, volendo vedere da prospettiva di Pechino, il trend potrebbe essere anche interpretato, se non positivo quanto meno non del tutto negativo. In tal senso la prima reazione ufficiale cinese alle elezioni è stata interessante. Sabato sera, subito dopo il voto, è uscito questo comunicato in cui si ribadiscono le solite cose, in primis la riunificazione inevitabile. Il DPP non rappresenta più l'opinione pubblica maggioritaria dell'Isola. È come se Pechino rivendicasse anche lei una piccola vittoria su risultato elettorale e presupponesse il fatto che potrebbe ancora portare pazienzanei prossimi anni e fare leva proprio su queste frammentazioni interne per provare a guadagnare qualche punto a livello politico. Qualora se arrivasse ad uno scontro tipo militare non ci sarebbero sanzioni o altri fattori economici che tengano perché la priorità per la Partita Comunista Cinese è proprio quella del mantenimento della legittimità interna anche su Taiwan. Quindi, qualora Taipei oltrepassasse le famose linee rosse di Pechino, ad esempio con la dichiarazione di indipendenza formale, niente potrebbe bloccare un intervento. A tutelarci da questo scenario c'è il fatto che, comunque, a Taiwan nessuno ha intenzione di dichiarare l'indipendenza formale. Nonostante Lai sia una figura probabilmente più radicale rispetto al presidente uscente Tsai Ing-wen, non c'è un consenso interno verso una dichiarazione d'indipendenza formale. I taiwanesi sono, per quasi 90 per cento, a favore dello status quo. Quindi niente unificazione con la Cina continentale ma nemmeno un'indipendenza formale che superi l'indipendenza che già esiste di fatto sull'Isola seppur all'interno della cornice di Cina.
Cosa manca a Taiwan per dirsi indipendente?
Taiwan è già indipendente de facto ma dentro la cornice della Repubblica di Cina. Il nome ufficiale di Taiwan è: Repubblica di Cina che è retaggio della guerra civile cinese quando i nazionalisti di Chiang Kai-shek persero contro comunisti di Mao Zedong e si rifugiarano appunto su Taiwan e su una serie di altre isole perché, si parla di Taiwan come un'isola, ma in realtà Taipei amministra oltre 150 isole.
Quindi che cosa significa indipendentista sul fronte taiwanese? Significa qualcuno che non si accontenta dell'indipendenza de facto come Repubblica di Cina ma che persegue una dichiarazione d'indipendenza formale come "Taiwan". Può sembrare una sottigliezza ma non lo è. Essere indipendenti de facto come Repubblica di Cina significa comunque rientrare nella sfera statuale cinese. Tutti i paesi nel mondo riconoscono la Repubblica Popolare quindi Pechino, la Cina, il governo cinese. Quindi anche Taiwan fa parte del territorio cinese. Invece una dichiarazione d'indipendenza formale porterebbe ad operare una cesura netta: "nostra politica", ma anche un concetto identitario quasi sulla sfera culturale fra Taiwan e Cina continentale.
Come è possibile giudicare le dichiarazioni di Biden e quelle di Blinken?
La posizione ufficiale degli Stati Uniti è quella di opporsi a qualsiasi azione unilaterale sullo status quo. Cosa significa azione unilaterale? Da una parte un'azione militare da parte di Pechino per arrivare alla riunificazione, dall'altra parte però anche alla dichiarazione d'indipendenza formale da parte di Taipei che operi una cesura definitiva. Rivendicare lo status quo lo fanno tutti i partiti taiwanesi ma è una cosa diversa da perseguire l'indipendenza. Il commento di Biden è una conferma della posizione ufficiale degli Stati Uniti. Il messaggio di Blinken è invece più pungente per la Cina. Il segretario di Stato americano si è congratulato per la vittoria direttamente con Lai in un post su X. Agli occhi di Pechino ciò rappresenta una violazione del principio dell'unica Cina in quanto non dovrebbero esserci degli scambi ufficiali tra funzionari dell'amministrazione Biden e l'autorità taiwanese.