La carenza di personale sanitario in Italia riguarda soprattutto infermieri e medici. La situazione attuale è molto grave e il sistema sanitario nazionale è affetto da una crisi sempre più prossima al collasso. Condizioni contrattuali poco attrattive, stipendi bassi, scarsa possibilità di fare carriera e di dimostrare le proprie competenze professionali.
A tutto ciò si aggiunge un aumento nell'abbandono delle facoltà di infermieristica. Questi sono i fattori che concorrono all'esodo degli addetti ai lavori nostrani, che spesso fuggono all'estero in cerca di prospettive di carriera migliori. La Lombardia è una delle regioni più colpite da questo esodo e, una delle soluzioni per ovviare al problema, proposta dall'assessore al Welfare Guido Bertolaso, continua a far discutere e creare polemiche.
L'oggetto della diatriba, che ha generato una spaccatura tra professionisti ed esperti del settore sanità, sta nel fatto che Bertolaso vuole assumere medici e infermieri dall'estero, con esattezza dal Sudamerica. E' una soluzione stabile oppure un momentaneo "tappabuchi"?
Tag24, per approfondire la questione, ha intervistato Stefania Di Mauro, membro dell'Associazione Regionale Lombardia Infermieri (ARLI) e Professore Associato di Scienze Infermieristiche all'Università Bicocca di Milano.
D: Perché siamo di fronte ad una grave carenza del personale sanitario in Italia attualmente? Un focus particolare sugli infermieri: qual è la situazione?
R: E’ una domanda difficile che può trovare varie risposte. In primo luogo va sottolineato che questo non è problema né di oggi, né di ieri in Italia. Questa situazione da avanti da tempo. A livello storico, da quando esiste una formazione omogenea in Italia per quanto riguarda questa professione – prima con il diploma e poi con la laurea - parliamo dei primi del Novecento, ci sono sempre stati dei problemi di tipo numerico per diversi motivi.
A partire dalla scarsa attrattività della professione, passando per il fatto che oggi il sistema sanitario non permette ad un infermiere di esprimere a pieno le sue competenze professionali, come per esempio in altri paesi dell'Europa.
Da ultimo, non per importanza, c’è il livello retributivo che non cambia mai. Un infermiere oggi prende fra i 1.500 e i 1.600 euro dall'inizio della sua carriera e la chiude allo stesso modo. E’ un fatto abbastanza grave.
D: Quanti infermieri mancano attualmente in Italia? Stiamo assistendo ad un vero e proprio esodo di recente per quanto riguarda i professionisti della sanità, tra medici e infermieri...
R: Noi abbiamo una stima di circa 60.000 infermieri che mancano sul territorio nazionale. In Lombardia parliamo di qualche migliaio. Siamo davanti ad una carenza importante. Oggi gli ospedali e le strutture sanitarie si stanno rubando sostanzialmente gli infermieri appena si laureano.
Quello che sta accadendo per i medici, è vero anche per gli infermieri. C’è una propensione ad andare in altri Paesi europei, per esempio quelli di tradizione anglosassone, che hanno una professione infermieristica molto più sviluppata. I giovani oggi sono molto attenti ad esprimere la possibilità di esprimere le proprie competenze.
Dalla Lombardia vanno in Svizzera, dove a livello professionale e retributivo, la situazione è molto diversa. Inoltre, in Europa e nel mondo, gli infermieri italiani sono davvero tanto richiesti perché è riconosciuto il loro ottimo livello formativo.
D: Cosa pensa della decisione dell’Assessore al Welfare Guido Bertolaso di chiamare infermieri e medici dal Sud America per far fronte alla carenza di personale sanitario in Italia? Di recente si è acceso un dibattito su questo tema, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Lei con chi si schiera? Quali sono i pro e i contro?
R: Io sono più che perplessa in merito a questa decisione, anzi sono proprio contraria. E’ chiaro che in una situazione di emergenza ogni soluzione può essere tenuta in conto. Sono quarant’anni che faccio questo tipo di lavoro, ho già visto in precedenza andare a pescare in altri paesi le risorse infermieristiche e questo non ha mai risolto il problema.
Soprattutto perché i numeri che vengono acquisiti sono sempre molto inferiori alle necessità reali. Un’altra considerazione che merita attenzione è valutare da che tipo di cultura arrivano gli infermieri, perché a volte l’adattamento al nuovo contesto richiede molto tempo, per la lingua ma non solo.
E poi perché, nell’ottica di cercare stabilità e un futuro migliore, anche questi infermieri nel tempo potranno guardare all'esterno e magari decidere di andare via dall’Italia. Non sono per forza meno ambiziosi dei nostri. Queste decisioni, anche in precedenza, non hanno mai portato a una soluzione di lungo periodo.
Per questi motivi non condivido questa misura, soprattutto se pensata per essere l'unica. Se non si inserisce questa possibilità nell'ambito di una serie di cambiamenti molto più importanti, sviluppando una workforce, non si arriverà ad una risoluzione stabile.
D: Secondo lei qual è la soluzione al problema? Come si fa fronte a una carenza di questo tipo? Quali sono gli strumenti se non si punta solo a rivolgersi all'estero? In tanti hanno definito questa scelta come un tappabuchi…
R: Noi in Italia abbiamo una formazione infermieristica che si è evoluta nel tempo, abbiamo degli standard formativi di cui quasi nessuno parla mai, cioè un livello di triennale - che primo step per l'ingresso nella professione – e una magistrale di due anni e via via i dottorati per specializzarsi.
A questo tipo di titoli dovrebbe corrispondere una maggiore ampiezza professionale in termini di possibilità di prendere decisioni sui pazienti. Ciò per non dovere in continuazione dipendere da altre figure, soprattutto quelle mediche, che, in certe situazioni, possono essere anche meno competenti su alcuni problemi specifici.
In molti Paesi in Europa, anche della nostra area culturale, come la Spagna e la Francia, da tempo hanno avviato un processo di evoluzione nel sistema. Un esempio concreto può essere l’istituzione dell’infermiere di famiglia e di comunità.
Una figura di cui si è iniziato a parlare negli ultimi 2/3 anni, ma che nasce molto tempo prima. Ha una sua storia, è tornata poi di nuovo in auge sicuramente con il Covid. Dobbiamo cercare di curare sempre di più le persone che ne hanno bisogno, anche in situazioni non solo ospedaliere. E su questo gli infermieri hanno una competenza importante, perciò devono avere maggiore autonomia.
Quando queste condizioni sono soddisfatte, c'è tutta una tematica di miglioramento degli accessi cosiddetti inappropriati al pronto soccorso e nelle strutture sanitarie, cosa che farebbe un gran bene ai nostri ospedali. La situazione attualmente è drammatica.
D: I ragazzi al giorno d'oggi ancora si iscrivono a infermieristica, pur sapendo quanto è faticoso questo tipo di lavoro, considerando anche le problematiche contrattuali e retributive? Quanti poi abbandonano la facoltà?
R: Negli ultimi due anni c'è stata una flessione a livello nazionale che sta su una media del 15% di diminuzione delle domande. Il problema non è limitato a infermieristica però, anche le altre professioni sanitarie sono state protagoniste di questo fenomeno, come per esempio ostetricia, fisioterapia. Noi dell’Università Bicocca a Milano abbiamo avuto circa il 9% di flessione, ci sono università anche in Lombardia che hanno avuto tra il 30 e il 40%.
Sulla questione degli abbandoni, ci sono diversi fattori da analizzare. Banalmente partendo dal fatto che una persona può rendersi conto, iniziando il percorso, che la professione sanitaria non fa per sé, e questo in generale si vede dopo il primo tirocinio. Può essere determinato da esperienze negative, situazioni complicate. I ragazzi a 18-19 anni entrano in ospedale e magari fronteggiano delle situazioni che li mettono in grandi difficoltà.
Sono abbandoni anche collegati, secondo il mio puto di vista, ad un disagio generale che c'è oggi nella nostra società, che molto spesso magari è più evidente nei giovani, ma che non tocca solo loro. Difficoltà di tipo esistenziale, a cui si aggiunge un generale senso di fatica ad affrontare situazioni di impegno. Non dimentichiamo poi che negli ultimi anni ci sono anche difficoltà di tipo economico da parte delle famiglie, che si riflettono evidentemente anche sui ragazzi.