Ci sono casi di omicidio che più di altri colpiscono il pubblico. Tra i più famosi è d’obbligo citarne uno che – sia per il luogo in cui si consumò che per la difficoltà che caratterizzò le prime indagini – ha per anni catalizzato l’attenzione mediatica: quello di Marta Russo, la 22enne romana che nel maggio del 1997 fu uccisa da un proiettile vagante mentre passeggiava insieme a un’amica all’interno della città universitaria della Sapienza. Un caso che la giustizia oggi considera chiuso ma che pure, secondo molti, non ha mai ottenuto la giustizia che meritava.
Marta Russo aveva 22 anni, era iscritta alla facoltà di Giurisprudenza e aveva alle spalle un discreto passato come campionessa sportiva nella scherma. Il 9 maggio del 1997 stava passeggiando, come faceva spesso, all’interno del campus della Sapienza insieme all’amica Jolanda Ricci, quando, all’improvviso, un proiettile la raggiunse alla nuca.
Crollò a terra, Jolanda si mise a urlare, attirando l’attenzione di altri studenti, che dettero l’allarme: cinque giorni dopo la ragazza, che era stata trasferita d’urgenza all’ospedale Policlino Umberto I, morì dopo essere entrata in coma.
A distanza di tanti anni dai fatti il suo caso resta, per certi versi, un mistero: la pistola da cui partì il colpo che la uccise non è mai stata trovata, così come non è stato mai trovato un possibile movente. Si pensa che semplicemente la 22enne sia stata ferita e uccisa per sbaglio: in carcere, per il suo omicidio, sono finiti due uomini che si sono sempre proclamati innocenti. Secondo molti lo erano davvero.
La prima pista che gli inquirenti seguirono fu quella del terrorismo: il 9 maggio, per la città di Roma, era infatti una giornata particolare. Si ricordava, come ogni anno, l’anniversario dell’omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani.
Tra coloro che indagavano qualcuno ipotizzò un ritorno della strategia della tensione. Poi venne avanzato il sospetto che il vero bersaglio del delitto potessero essere alcuni studenti iraniani che lo stesso giorno erano stati visti distribuire dei volantini contro il regime degli ayatollah a poca distanza da dove Marta era morta.
Secondo questa tesi, in pratica, la ragazza era stata colpita al posto di qualcun altro. Qualche settimana dopo le cose cambiarono: una perizia – che di recente è stata messa in discussione – stabilì che il proiettile era stato esploso dall’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto, che affacciava sul vialetto percorso dalla 22enne il giorno dell’omicidio.
Sul davanzale della saletta riservata agli assistenti del professor Bruno Romano era stata rinvenuta, infatti, una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo. Si accantonò così, una volta per tutte, la pista che tirava in ballo gli addetti di un’azienda di pulizie che si occupava della manutenzione dei bagni dell’università, incluso quello riservato ai disabili del primo piano di Statistica, situato a pochi metri dal luogo del delitto, accanto a un ripostiglio denominato deposito in cui erano state ritrovate armi e munizioni (che spesso, a quanto pare, venivano usate proprio in università).
Concentrandosi sull’aula 6, gli inquirenti riuscirono a rintracciare – attraverso l’analisi dei tabulati dell’unico telefono presente – una possibile testimone: Maria Chiara Lipari che, interrogata, si contraddisse più volte.
Fu lei, a un certo punto, a fare il nome della segretaria dell’Istituto Gabriella Alletto, sostenendo che si trovasse all’interno della stanza al momento dei fatti. La donna a sua volta puntò il dito contro i due dottorandi Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, che alla fine furono rinviati a giudizio con l’accusa di omicidio e di favoreggiamento.
Secondo la Procura, in pratica, il primo aveva sparato; il secondo l’aveva coperto. Il motivo? Nessuno. Il processo che si aprì a loro carico fu puramente indiziario: i giudici di primo grado condannarono Scattone a 7 anni per omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente e per possesso illegale d’arma da fuoco e Ferraro a 4 anni per favoreggiamento personale.
Condanne confermate anche in Appello. La Cassazione però annullò le sentenze e chiese un nuovo processo di secondo grado, che si concluse con la condanna a 6 anni per Scattone e a 4 anni per Ferraro. Quella definitiva fu a 5 anni e 4 mesi per il primo e a 4 anni e 2 mesi per il secondo. Qualcuno sostenne di averli sentiti dire di aver compiuto il delitto perfetto. Entrambi, però, si sono sempre dichiarati estranei ai fatti.
È possibile, ci si chiede, che siano state vittime di un errore giudiziario? In molti, nel corso degli anni, hanno parlato di un innamoramento della tesi da parte degli inquirenti, ipotizzando che dietro l’omicidio di Marta Russo – ancora ricordato da molti per la sua tragicità – si nasconda, in realtà, qualcos’altro. E che la vera pista da seguire fosse una delle prime avanzate: quella che sospettava di alcuni degli addetti alle pulizie del tempo.
Ne parleranno Fabio Camillacci e Gabriele Raho nella prossima puntata di Crimini e criminologia su Cusano Italia Tv (canale 122 del digitale terrestre). Appuntamento domenica 19 maggio dalle ore 21.30 alle ore 23.30.