Dopo settimane di tensione crescente, gli Stati Uniti hanno colpito i siti nucleari iraniani, affiancando l’offensiva israeliana. Dietro questa decisione si celano valutazioni strategiche, divergenze tra le agenzie di intelligence e la volontà politica del presidente Trump di ridefinire gli equilibri nella regione.
Nella notte tra il 21 e il 22 giugno, gli Stati Uniti hanno bombardato gli impianti del programma nucleare dell’Iran.
Con l’avvio dell’operazione militare israeliana del 13 giugno, Tel Aviv ha preso di mira il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia esistenziale.
Sebbene le forze israeliane abbiano colpito diversi siti nucleari, l’impianto di Fordow era il più protetto per la sua costruzione. Questo sito è noto per essere nascosto sotto una montagna, a circa 80 metri di profondità.
L’unica arma ritenuta capace di distruggere un impianto come quello di Fordow è la GBU-57 Massive Ordnance Penetrator, ovvero una bomba “bunker buster” del peso di oltre 13.600 chilogrammi, in grado di perforare fino a 61 metri di roccia. Solo i bombardieri B-2 sono in grado di trasportarla.
Tel Aviv non dispone infatti di bunker buster con questa capacità distruttiva.
L’aiuto di Washington, quindi, era cruciale per il raggiungimento degli obiettivi israeliani.
Anche se la valutazione dell'intelligence americana indicava che Teheran era ancora lontana dal possedere un’arma nucleare, Trump era in disaccordo con questa analisi.
Affiancato dal vicepresidente JD Vance, dal segretario alla Difesa Pete Hegseth e dal segretario di Stato Marco Rubio, Trump ha affermato nel suo discorso alla nazione:
Il primo ministro israeliano si è congratulato con il presidente americano per la sua “coraggiosa decisione di colpire gli impianti nucleari iraniani con la straordinaria”. Ha aggiunto:
Gli attacchi americani ai siti nucleari iraniani spingono gli Stati Uniti verso una nuova escalation in Medio Oriente.
Secondo Trump, “l’Iran, il bullo del Medio Oriente, deve ora fare la pace.”
Se la scommessa del presidente americano dovesse portare a una risposta del regime iraniano, il conflitto potrebbe estendersi su vasta scala.
I timori aumentano anche alla luce delle parole pronunciate da Trump nel suo discorso alla nazione, dove ha affermato che, in caso di mancato accordo, “gli attacchi saranno molto più grandi e facili.”
La storia, e gli esempi di Afghanistan e Iraq, hanno dimostrato che è facile iniziare una guerra, ma molto più difficile porvi fine.
Sono serviti decenni agli Stati Uniti per trovare una via d’uscita da quei conflitti, ma le popolazioni di quei paesi hanno pagato il prezzo più alto.
Il presidente americano aveva fissato un termine di due settimane prima di prendere una decisione. Ciò aveva alimentato le speranze di mantenere aperti i canali diplomatici, di fronte al rischio di un’ulteriore escalation.
Trump si era già opposto alle “guerre eterne” americane e, fin dal primo giorno del suo secondo mandato, aveva indicato una linea di politica estera isolazionista.
I bombardamenti americani ai siti nucleari iraniani, soprattutto mentre la scadenza di 14 giorni era ancora in corso, non sono solo un ulteriore esempio dell’imprevedibilità di Trump: rappresentano anche una rottura con i suoi stessi principi e potrebbero segnare la sua presidenza.
Si insinua che Trump fosse giunto alla conclusione che un intervento americano fosse necessario per distruggere i siti nucleari altamente fortificati in Iran.
La questione dell’intervento aveva già diviso la base MAGA, tra chi sosteneva l’azione e chi voleva astenersi, nel nome della dottrina “America First”.
È la prima volta, dalla rivoluzione islamica del 1979, che Washington schiera mezzi dell’aeronautica militare per colpire strutture importanti all’interno del territorio iraniano.
L’attacco agli impianti nucleari iraniani segna una svolta nella politica estera americana.