Una pinta di Guinness ben spillata ha sempre quel mix di schiuma e aroma di caffè che la rende irresistibile. La nuova serie Netflix "House of Guinness" funziona un po' allo stesso modo: prende ingredienti veri, ci aggiunge un tocco di fantasia e serve agli spettatori un bicchiere traboccante di drammi familiari, politica bollente e segreti scomodi.
E anche se il titolo è abbastanza evocativo, la domanda che tutti si fanno è: quanto di quello che vediamo è davvero successo? E soprattutto, quanto la serie è fedele alla vera storia della dinastia Guinness, una delle famiglie più potenti e iconiche d’Irlanda? Spoiler: la risposta è un po' come bere al buio - c'è tanta sostanza reale, ma anche parecchie aggiunte che - come si dice nello United Kingdom - fanno da garnish.
La serie si apre con il funerale di Sir Benjamin Lee Guinness nel 1868, una scena che punta subito a immergerci in un'Irlanda tesa tra politica, religione e fermenti sociali. Lì vediamo proteste, effigi bruciate e soldati che cercano di sedare la folla: roba forte, ma che nei libri di storia non compare (tolgono sempre la parte divertente).
Quello che è certo è che Benjamin Lee, nipote del fondatore Arthur Guinness, era davvero un uomo di potere assoluto: magnate della birra, filantropo e politico schierato con gli unionisti. Alla sua morte, il birrificio di St. James's Gate era già il più grande d’Irlanda e dava lavoro a migliaia di persone.
La fedeltà della serie alla realtà storica quindi oscilla come la schiuma in cima a un bicchiere: ci sono eventi realmente accaduti, come la centralità del birrificio nella vita di Dublino e le tensioni religiose tra protestanti e cattolici, ma molte scene sono costruite per aumentare il pathos. La ribellione durante il funerale, ad esempio, non ha riscontri storici, ma serve a raccontare un'Irlanda in fermento.
Per capire meglio quanto ci sia di vero nella serie, bisogna fare un salto indietro fino al 1759. In quell’anno, Arthur Guinness firma un affitto da record di 9mila anni (sì, avete letto bene) per il sito di St. James’s Gate a Dublino. Inizia producendo ale, ma è con la porter - birra scura che ancora oggi porta il suo nome - che conquista il mercato. Così, la Guinness diventa uno dei birrifici più importanti della città.
Nel XIX secolo la famiglia consolida la sua influenza grazie alla capacità di innovare: energia a vapore, qualità rigorosa, marketing intelligente. Benjamin Lee Guinness porta il marchio a livelli altissimi e lo trasforma in un colosso. Ma non si ferma alla birra: si butta anche in politica, diventando deputato conservatore per Dublino, e in filantropia, finanziando opere pubbliche come il restauro della Cattedrale di San Patrizio.
Insomma, un personaggio larger-than-life, con un piede nel business, uno in Parlamento e una mano sempre pronta a modellare la città. Dopo la sua morte, i riflettori si spostano sui suoi figli, che nella serie vengono raccontati come una banda di fratelli e sorelle in lotta per l’eredità e il controllo del birrificio.
Nella realtà storica, però, il testamento non è stato così drammatico come mostrato sullo schermo: i beni sono stati divisi, e anche Anne e Benjamin Jr hanno ricevuto proprietà e denaro. Certo, Benjamin Sr aveva inserito alcune clausole restrittive per chi volesse uscire dagli affari di famiglia, ma quale padre-imprenditore non lo avrebbe fatto?
Sul piano politico, il primogenito Arthur Edward Guinness segue le orme del padre, candidandosi con i conservatori. La serie mostra la sua elezione come una storia torbida di favori, tangenti e intrighi nei pub, e qui... la finzione pesca dalla realtà. La politica a Dublino era davvero un affare fatto di clientelismo, banchetti e mazzette.
Nel 1870 la sua elezione, infatti, è stata annullata per frode elettorale commessa dal suo agente, ma Arthur non è mai stato ritenuto colpevole in prima persona. Più soap che documento storico, insomma.
Uno dei motivi per cui "House of Guinness" funziona è la combinazione di figure reali e personaggi inventati che danno pepe alla trama. Arthur Edward, Edward Guinness, Benjamin Jr e Anne sono persone realmente esistite, ma le loro storie sono state reinterpretate. La Lady Anne della serie è sensibile alle condizioni dei poveri, e questo ha un fondo di verità: si è dedicata davvero al sociale e ha fondato la St Patrick’s Nursing Home.
Poi ci sono figure nate solo per la sceneggiatura, come Sean Rafferty, il caposquadra della fabbrica interpretato da James Norton. Lui è un personaggio creato ad hoc per rappresentare le tensioni di classe e religione, oltre che il potere dell’azienda di controllare i suoi dipendenti. Anche Byron Hedges, cugino dei Guinness e intrallazzatore negli Stati Uniti, è frutto della fantasia degli sceneggiatori per intrecciare la narrazione all’espansione della Guinness in America.
Alcuni dettagli, invece, hanno solide radici nella realtà. L’uso dell’arpa come simbolo è un colpo di genio del marketing già introdotto nel 1862, ben prima che diventasse anche l’emblema ufficiale dello Stato irlandese. Oppure le condizioni dei lavoratori del birrificio: davvero i Guinness introdussero pensioni, ferie pagate e benefit che rendevano i dipendenti tra i più privilegiati d’Irlanda.
Non era solo propaganda - anche se male non ha fatto: c’era dietro una precisa visione paternalista e progressista, che però la serie non manca di reinterpretare come mossa astuta per accaparrarsi consenso politico.
Insomma, "House of Guinness" mescola realtà e invenzione con la stessa maestria con cui si miscela una buona stout: c’è storia vera, ci sono licenze creative e c’è un’Irlanda di fine Ottocento raccontata con colori pop e accenti drammatici. Davvero i "Peaky Blinders" si sono dati alla birra qui.