Una scuola elementare deserta, silenziosa come un'arena prima del massacro.
È qui, in questo spazio apparentemente innocuo, che il regista Halfdan Ullmann Tondel allestisce il suo claustrofobico dramma psicologico, Armand.
Quella che dovrebbe essere una semplice riunione tra genitori e insegnanti si trasforma progressivamente in un tribunale improvvisato, un assalto psicologico dove l'accusa mossa a un bambino di sei anni diventa il pretesto per processare l'identità, il dolore e la non conformità di sua madre, Elisabeth.
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Fin dai primi istanti, è chiaro che Elisabeth (una magistrale Renate Reinsve) sta entrando in un territorio ostile. Il gesto di togliersi il rossetto e gli orecchini non è un dettaglio, ma una resa preventiva.
La scuola, con i suoi corridoi vuoti e la sua atmosfera tesa, non è un luogo di educazione, ma un microcosmo della società giudicante, un sistema pronto a individuare e isolare chi non si conforma.
L'accusa è terrificante: suo figlio Armand avrebbe commesso atti sessualmente inappropriati nei confronti di un compagno, Jon. Ma fin da subito, la conversazione non riguarda i fatti, bensì le persone. Riguarda Elisabeth.
Il film orchestra con abilità un'atmosfera di accerchiamento. Da un lato, il personale scolastico, il preside Jerle, figura paterna tanto ben intenzionata quanto ciecamente conformista, e la consigliera Ajsa, che tratta la situazione con una burocrazia fredda che maschera un pregiudizio latente.
Dall'altro, i genitori di Jon, Sarah e Anders. Ed è qui che il dramma si infiamma, perché questo non è un incontro tra estranei. Sarah è la cognata di Elisabeth, la sorella del suo defunto marito, Thomas. Il loro passato comune non è un ponte, ma un campo minato di risentimenti e traumi irrisolti.
Sarah non cerca la verità; cerca un colpevole, e quel colpevole deve essere Elisabeth. Brandisce il dolore per la morte del fratello come un'arma, insinuando che la vedovanza di Elisabeth e la sua carriera di attrice siano prove della sua instabilità, della sua inadeguatezza come madre.
Ogni dettaglio della vita di Elisabeth, la sua presunta eccentricità, il suo modo di essere, viene distorto e presentato come un indizio. In questo processo sommario, la presunzione di innocenza non esiste.
La vulnerabilità di Elisabeth, ancora segnata dal lutto per un marito che, scopriamo, era violento, viene cinicamente usata contro di lei.
Armand eccelle nel mostrare come il giudizio sociale si nutra di stereotipi. Poiché Elisabeth è un'artista, una donna che non si piega alle convenzioni, viene implicitamente etichettata come inaffidabile. Suo figlio Armand, descritto come esplicito e chiassoso, paga lo scotto di non essere un bambino docile e silenzioso. Madre e figlio sono colpevoli prima ancora che i fatti vengano esaminati, colpevoli di essere "diversi".
Il regista intesse la narrazione con metafore surreali che accentuano la crescente pressione psicologica.
Il punto di svolta arriva quando la verità, a lungo soffocata, emerge non attraverso un'indagine razionale, ma attraverso il crollo delle bugie.
La confessione implicita di Anders e la rivelazione che Sarah ha inventato e ingigantito le accuse, proiettando forse abusi che avvengono tra le mura di casa sua, scardinano l'intero castello accusatorio.
Sarah non voleva giustizia per suo figlio; voleva vendetta per suo fratello, punendo Elisabeth per un lutto di cui non era responsabile e per una felicità che, ai suoi occhi, non meritava.
Il finale è un'allegoria potente. Mentre l'allarme antincendio suona per l'ultima volta, costringendo tutti a uscire, Elisabeth viene avvolta da una folla di persone che la toccano, un contatto che passa dalla curiosità all'affetto, fino a diventare opprimente, quasi violento.
È una metafora del confine labile tra l'amore e l'abuso, tra l'accettazione sociale e la sua morsa soffocante. Per un attimo, sotto la pioggia battente, Elisabeth è di nuovo sola, un'emarginata. Ma quando Anders fa la cosa giusta e rivela la verità, la marea cambia. La folla si sposta sotto la sua tettoia, lasciando Sarah a urlare la sua rabbia sotto il diluvio, ora lei l'unica reietta.
Armand non è un film su cosa abbia fatto o non fatto un bambino. È un'opera spietata su quanto sia facile per una comunità, accecata dal dolore e dal pregiudizio, distruggere un individuo. È un monito su come la "normalità" venga usata come un'arma contro "i diversi" e su come basti un singolo atto di coraggio per spezzare il ciclo della menzogna. L'abbraccio finale tra Elisabeth e suo figlio non è un lieto fine, ma un momento di tregua, la rassicurante certezza che, nonostante tutto, sono sopravvissuti insieme al gioco più crudele di tutti.