Gli Stati Uniti continuano a mettere il naso negli affari degli altri paesi, anche sotto la bandiera del presunto isolazionismo trumpiano.
L'annuncio del presidente americano di un possibile intervento militare in Nigeria conferma che, al di là dei proclami elettorali, Washington non può fare a meno di vestire i panni dello “sbirro globale” tanto criticato.
Non è passato molto tempo da quando gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Trump, avevano minacciato sanzioni e interventi pesanti contro il Venezuela, accusando il governo di Maduro di autoritarismo e di minaccia alla democrazia nella regione.
Ora, la minaccia si sposta da Caracas ad Abuja: Trump ha ordinato al Dipartimento della Difesa di prepararsi “per una possibile azione” in Nigeria, denunciando una presunta strage di cristiani che il governo nigeriano rigetta fermamente come una distorsione della realtà locale.
Trump si è sempre presentato come il paladino della dottrina “America First”, ripetendo che i tempi delle “guerre infinite” e degli interventismi a stelle e strisce erano finiti.
Eppure, la reazione all’escalation di violenze in Nigeria smentisce completamente questa retorica: “Se attaccheremo, sarà rapido, feroce e gratificante”, ha dichiarato sui social, rievocando una retorica bellicista che sarebbe piaciuta ai suoi predecessori.
Questa incoerenza è ormai un tratto distintivo della politica estera statunitense. Da un lato il tentativo di presentarsi come potenza meno interventista, dall’altro il ricorso alla forza militare non appena si profila una crisi che possa giustificare una “missione di polizia globale”.
L’ultimo casus belli riguarda le accuse di “violazioni sistematiche della libertà religiosa” in Nigeria e la denuncia di “massacri di cristiani” ad opera di miliziani islamisti.
Trump ha minacciato di sospendere immediatamente ogni tipo di aiuto al governo nigeriano e di colpire militarmente gruppi jihadisti responsabili di attacchi contro le minoranze cristiane.
Eppure, la realtà nigeriana è complessa: il governo del presidente Bola Ahmed Tinubu ha ribattuto che le stragi coinvolgono sia cristiani che musulmani e che le dinamiche violente sono spesso il prodotto di conflitti locali tra pastori e agricoltori, tensioni etniche e dispute per le risorse, più che di persecuzioni religiose sistematiche.
"Gli Usa potrebbero benissimo entrare in quel paese ormai screditato, sparando a raffica, per spazzare via completamente i terroristi islamici" scrive sui social Trump. Magari pensando a quello che sta facendo a Gaza il suo amico Netanyahu dove, con la scusa di eliminare la minaccia islamista di Hamas, ha dato il via ad un massacro di civili.
Nel suo nuovo ruolo di giustiziere globale, Trump sembra aver ricevuto la chiamata diretta dai piani alti, vestendo i panni dell’unto dal Signore pronto a difendere i cristiani perseguitati in ogni angolo del pianeta.
Del resto, anche grazie alla speculazione religiosa e al sostegno di figure grottesche come la predicatrice Paula White, il tycoon è riuscito a raccattare parecchi consensi nell'elettorato ultraconservatore.
La geopolitica, così, si trasforma nell’ennesimo palcoscenico per il bullo biblico, deciso a scrivere la propria leggenda da giustiziere dei cristiani, a beneficio di follower e telecamere.
Mentre gli Stati Uniti minacciano sanzioni e interventi armati, la Nigeria ribadisce di aver bisogno semmai di collaborazione internazionale per combattere il terrorismo e non di una nuova occupazione straniera.
“Quello che il nostro paese chiede agli Stati Uniti è assistenza militare contro gli estremisti – non una designazione come Nazione di particolare preoccupazione”, ha ricordato il portavoce del governo nigeriano.
Il caso nigeriano dimostra ancora una volta come la politica estera americana non riesca a emanciparsi dalla tentazione di imporre con la forza la propria visione del mondo, anche quando questa è mascherata sotto il pretesto della tutela dei diritti umani o della difesa delle minoranze religiose.
A nulla valgono i tentativi della Nigeria di dimostrare la propria volontà di proteggere tutte le comunità, né le richieste di maggiore cooperazione internazionale.
Trump, il “non interventista” a parole, dimostra nei fatti che gli Stati Uniti non riescono ad abbandonare quel ruolo di gendarme planetario che li ha contraddistinti da decenni.
Dopo il Venezuela, ora tocca alla Nigeria: cambiano i presidenti e le bandiere, ma il modus operandi resta sempre quello del poliziotto che si auto-nomina giudice, giuria ed esecutore.
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