C’è chi a Bruxelles lo chiama “piano di pace”. E chi, con meno ipocrisia, lo considera un invito elegante alla capitolazione ucraina.
Il progetto elaborato dagli strateghi trumpiani somiglia più a una maxi–offerta prendere o lasciare che a una bozza negoziale. E soprattutto, come si mormora nelle stanze dove si parla a mezza voce, andava confezionato con cura per farlo ingoiare a Zelensky senza provocare un’esplosione politica.
Ma qui arriva il dettaglio più saporito della vicenda. Se si guarda il calendario, c’è una “coincidenza” che fa sorridere i più maliziosi: appena prima dell’annuncio del piano statunitense, a Kiev è scoppiata l’ennesima tempesta di scandali, con nomi, storie, ricchezze improvvise e retroscena che nessuno aveva avuto fretta di tirare fuori negli ultimi mesi.
Tra i protagonisti che finiscono nel tritacarne mediatico compare persino la figura di Timur Mindich, l’imprenditore che, nella narrativa pop, viene spesso evocato come l’uomo che contribuì al lancio dello Zelensky comico prima che diventasse presidente. Quanto ci sia di vero o di gonfiato in questi racconti non è chiaro — ma ciò che conta, nel gioco politico, è l’effetto. E l’effetto è potentissimo.
Nelle cancellerie europee si fa strada una lettura molto semplice:
per indebolire Zelensky non serviva abbatterlo, bastava renderlo più fragile.Come? Con la cosa più banale del mondo quando si parla di guerra, soldi e alleati: far filtrare informazioni. È un segreto di Pulcinella che da mesi gli apparati di intelligence — americani, europei, e persino quelli interni ucraini — monitorino al centesimo i flussi finanziari destinati a Kiev. Routine, dicono. «Due diligence», sospirano. Il fatto è che il materiale raccolto esiste. È lì, nei cassetti, negli archivi, nei server. E in politica internazionale esiste una regola antica:
il materiale conta, ma conta molto di più quando decidi di farlo circolare.Così, proprio alla vigilia del piano trumpiano, ecco che le redazioni iniziano a ricevere documenti, segnalazioni, appalti sospetti, conti e conticini senza la giusta quadratura. Con un tempismo chirurgico.
E Zelensky? Zelensky arriva alla settimana decisiva dimezzato politicamente, stretto tra la pressione militare, la stanchezza interna e un’ondata di rivelazioni che lo costringono sulla difensiva proprio mentre gli Stati Uniti chiedono “realismo” — leggi: accettare un compromesso al ribasso. A Washington fanno spallucce. A Bruxelles sgranano gli occhi. A Kiev si interrogano su chi abbia aperto, con tanta cura, il famoso “cassetto”. Perché la sensazione diffusa — non solo tra i complottisti da bar, ma in molte ambasciate — è che la pace trumpiana avesse bisogno di un Zelensky indebolito. Non demolito, no: solo abbastanza traballante da avere meno voce in capitolo.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il piano americano arriva in un’Ucraina scossa, in un’Europa perplessa e in un clima internazionale dove ogni fuga di notizie sembra parte di un mosaico più grande. Nessuno può dire con certezza chi abbia orchestrato cosa. Ma il filo narrativo che unisce la tempistica degli scandali al tempismo del piano è troppo perfetto per essere ignorato. E nelle capitali ci si domanda già: il prossimo cassetto, chi deciderà quando aprirlo?
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