A piccoli passi il caso Unabomber torna a occupare le pagine delle cronache locali. A due mesi dalla riapertura dell’indagine, la Procura di Trieste, guidata dal Procuratore capo Antonio De Nicolo, chiede di sottoporre a test genetici approfonditi dieci oggetti che furono posti sotto sequestro durante la prima inchiesta. Sul caso collabora anche il sostituto procuratore Federico Frezza in qualità di esecutore materiale della richiesta di incidente probatorio.
Dieci sono anche gli indagati, ossia uno in più rispetto alle nove della prima inchiesta. In breve, si cerca di risalire all’identità del bombarolo (o dei bombaroli, ribattezzato appunto Unabomber) protagonisti di una trentina di blitz con materiale esplosivo compiuti tra il 1994 e il 2006.
Dopo la riapertura del caso Unabomber, archiviato nel 2010 per mancanza di indiziati e riaperto lo scorso novembre, la Procura di Trieste si concentra ora sull’analisi di dieci oggetti da cui gli inquirenti si auspicano di reperire alcune tracce di dna.
Ciò si legge nella nota ufficiale presentata da De Nicolo, in cui emerge chiaramente la volontà di condurre le indagini verso una direzione precisa ma senza attribuire frettolose responsabilità agli attuali indagati.
Il reato ipotizzato nella precedente analisi è quello di attentato con finalità di terrorismo. Nell’arco temporale descritto sopra, Unabomber realizzò 28 agguati con ordigni esplosivi nascosti tra le province di Treviso e Udine. Il giornalista Marco Maisano, insieme a Francesca Girardi e Greta Momesso, due vittime di Unabomber, hanno così ottenuto una parziale giustizia a seguito della loro richiesta di riapertura del caso, che con le nuove tecnologie scientifiche e biomediche a disposizione potrebbe prendere una prima strada.
Il punto di partenza delle nuove indagini saranno gli oggetti che celavano della dinamite rimasta inesplosa: un capello bianco su un uovo in un supermercato di Portogruaro e alcuni peli in un scovato in un vigneto a San Stino di Livenza
Il principale indiziato del vecchio processo fu un ingegnere bellunese, Elvo Zornitta. L'uomo venne scagionato nel 2016 dalla Procura di Trieste quando emerse che un poliziotto aveva cercato di incastrarlo manomettendo una prova chiave.
A distanza di oltre sei anni Zornitta si interroga "se le indagini vengano riaperte in base a nuovi elementi oppure solo per una richiesta avanzata". In una sua precedente intervista al quotidiano Il Piccolo, voce affidabile della cronaca friulana, aveva affermato di non nutrire grandi speranze sull'ipotesi di una cattura del responsabile (o dei responsabili, ipotesi che rimane privilegiata). "Non sono rimasto ferito fisicamente, ma le scorie dell'inchiesta che mi ha riguardato sanguinano ancora", così ricorda il periodo in cui fu additato di essere il colpevole. Per la persecuzione giudiziaria, poi rivelatasi erronea, l'uomo aveva inizialmente ricevuto un risarcimento parziale poi bloccato dall'avvocatura dello Stato.