Il Tribunale di Trapani ha deliberato, per la prima volta in Italia, che una donna transgender potrà cambiare il suo nome e l'identità di genere all'anagrafe, pur non essendosi sottoposta ad alcuna operazione di riassegnazione del sesso o ad alcuna terapia ormonale. La donna in questione, Emanuela, lottava da oltre 20 anni per questo riconoscimento ed è passata attraverso numerose battaglie, peripezie e colloqui. Il Tribunale di Trapani è partito da un principio estrapolato da una sentenza del 2015 della Corte di Cassazione, con la quale per un'altra donna transgender è stato possibile legittimarsi come donna prima dell'operazione, che però era pianificata.
Emanuela, 53 anni, di Erice (in provincia di Trapani), in un'intervista a Repubblica ha ripercorso la sua storia e ha dichiarato di aver "sempre saputo di essere donna", pur avendo deciso di non operarsi. Se sono venti gli anni di lotta per il riconoscimento il diritto di cambiare nome e identità di genere, sono ben di più quelli trascorsi da quando Emanuela ha iniziato ad avere coscienza di essere una persona transgender. Già a 5 anni sentiva dentro di sé "un universo femminile. Perché quando si è transgender il bambino, o la bambina, percepisce la sua identità nell'immediato".
Vent'anni fa, Emanuela ha dato avvio all'iter per la riassegnazione sessuale per via ormonale e chirurgica. Per la legge italiana, costituisce un passaggio obbligatorio e necessario per poter poi richiedere il cambiamento di nome e identità di genere all'anagrafe. Tuttavia, dopo i primi incontri con i medici e dopo che questi hanno spiegato le conseguenze e l'invasività del trattamento, la donna ha cambiato idea:
Le sue parole hanno trovato una riconferma nella sentenza del Tribunale di Trapani, che ha creato un precedente molto importante. Di fatto, l’organo sessuale maschile non è di impedimento alla percezione di sé come donna e non è necessario che si effettuino o programmino interventi chirurgici per riconoscere una persona come tale.