Tra il 1968 e il 1985 otto casi di duplice omicidio sconvolgono le campagne nei dintorni di Firenze. A commetterli è quello che i giornali hanno rinominato il Mostro. La modalità è sempre la stessa: giovani coppie di amanti vengono sorprese nell’intimità in luoghi isolati e freddate a colpi di pistola dal killer che poi, con un coltello, si accanisce sui corpi delle donne, mutilandoli. Oltre cinquant’anni dopo la storia di questi omicidi – lunga e intricata – non è ancora stata del tutto chiarita.
Tutto iniziò il 21 agosto del 1968. Antonio Lo Bianco e Barbara Locci si trovavano in un’auto parcheggiata su una strada appartata poco distante dal cimitero di Signa, fuori Firenze. Entrambi erano sposati: lui faceva il muratore, lei la casalinga. Avevano 29 e 32 anni. Attorno alla mezzanotte il killer si avvicinò loro e sparò quattro colpi di pistola ciascuno con una pistola Beretta calibro 22 e dei bossoli Winchester marcati con la lettera H sul fondello.
A dare l’allarme, bussando alla porta di una casa situata a circa due chilometri di distanza dal luogo dell’aggressione fu il figlio di Locci, che dormiva sul sedile posteriore della vettura. Aveva 6 anni. La mi’ mamma e lo zio sono morti, disse all’uomo che gli aprì. Era scalzo, in stato confusionale. L’ipotesi è che ad accompagnarlo fin lì fosse stato il Mostro, che non aveva messo in conto la sua presenza.
Del delitto, che sarebbe stato collegato ai successivi solo quindici anni più tardi, nel 1982, fu inizialmente sospettato il marito di Locci, Stefano Mele, che prima negò ogni accusa, poi puntò il dito contro altre persone (Salvatore e Francesco Vinci, della cosiddetta pista sarda) e infine si accusò, venendo incastrato anche dal figlio, che – dopo aver dichiarato di non aver sentito niente – disse di aver visto il padre. Nel 1973 fu condannato, alla fine, a 14 anni di carcere.
L’anno successivo, nel 1974, il Mostro tornò però a colpire. Lo fece il 14 settembre a Sagginale, una frazione di Borgo San Lorenzo, dove Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini si erano appartati in auto su una strada sterrata. Si erano conosciuti da circa due anni: lui aveva 19 anni, lei 18.
Il killer li sorprese, colpendoli in tutto per otto volte. Poi portò il corpo della giovane fuori dall’auto e la accoltellò, inserendo un tralcio di vite nella sua vagina. Sembra che nei giorni precedenti avesse raccontato ad un’amica di aver avuto un incontro insolito con un uomo e che il suo insegnante di guida avesse notato che la sera prima qualcuno li aveva pedinati.
Chi aveva ucciso lei e il compagno, in pratica, l’aveva presa di mira. E aveva usato la stessa arma e gli stessi bossoli del primo duplice omicidio, quelli che d’ora in avanti avrebbe usato sempre. Il 6 giugno del 1981 li sparò contro Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio, di 30 e 21 anni. Si erano appartati con l’auto a Moscano di Scandicci.
Non si conoscevano da molto, ma erano innamoratissimi e avevano già in programma di sposarsi. La modalità seguita dal killer fu simile alle precedenti: dopo aver freddato i due a colpi di pistola, si accanì sul corpo della donna, asportandole il pube. I sospetti caddero su un certo Vincenzo Spalletti, un autista di ambulanze che in zona era noto come guardone. L’uomo fu arrestato e incarcerato.
Fu scagionato dopo che il 22 ottobre del 1981 il Mostro uccise Stefano Baldi e Susanna Cambi. Avevano 26 e 24 anni. Anche loro avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi. Anche loro si trovavano in auto su una strada sterrata, questa volta a Travalle di Calenzano, vicino Prato.
Furono sorpresi con nove colpi di pistola. Poi il corpo di lei venne mutilato. Il 19 giugno del 1982, quando il killer uccise Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, di 22 e 19 anni, si iniziarono a collegare tutti i casi. I bossoli usati, infatti, erano sempre gli stessi. Ma lo era anche il rituale degli omicidi.
Successe anche qualcos’altro: una coppia che aveva raccontato di aver notato un’auto sportiva allontanarsi a velocità sostenuta dal luogo in cui erano stati uccisi Baldi e Cambi, nel 1981, riuscì a fornire agli inquirenti un identikit del Mostro.
Poi una lettera anonima recapitata al pubblico ministero Silvia Della Monica li richiamò all’attenzione, evidenziando come i duplici omicidi commessi dal Mostro fossero cinque e non quattro come si pensava e che, per capire quale fosse quello mancante, occorreva indagare su un episodio analogo avvenuto in passato, in altra località della Provincia.
Il riferimento era al primo duplice omicidio, quello del 1968, che a quel punto fu attribuito, come gli altri, al serial killer. Mele, che nel frattempo era stato scarcerato, fu interrogato di nuovo e tornò ad accusare dei fatti Francesco Vinci, allora recluso per maltrattamenti. L’uomo venne imputato anche dei delitti. Poi il Mostro si rifece vivo e lui fu assolto.
Il 9 settembre 1983 furono uccisi, per sbaglio, due ragazzi tedeschi di 24 anni. Si trovavano a bordo di un furgone Volkswagen nei pressi di Scandicci e il killer li scambiò per una coppia perché uno dei due aveva i capelli lunghi. Quando se ne accorse, lasciò il luogo del delitto senza infierire sui loro corpi.
Sulla base di nuove dichiarazioni rese da Mele, furono indagati il fratello e il cognato. Mentre loro erano in carcere fu commesso, però, un altro duplice omicidio. Era il 29 luglio del 1984. Il Mostro freddò a colpi di pistola Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini, di 21 e 18 anni, asportando il pube e il seno sinistro della giovane.
Più di un anno dopo, il 29 luglio del 1985, uccise per l’ultima volta: a morire furono i due francesi Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, di 25 e 36 anni. Si erano accampati in una tenda agli Scopeti, nel comune di San Casciano in Val di Pesa. Il killer li aveva colti di sorpresa, colpendo prima lui, che aveva tentato di fuggire, venendo inseguito e ucciso nel bosco e poi lei. Un lembo del suo seno fu recapitato agli uffici della Procura di Firenze.
Fino ad allora le indagini non avevano portato a nulla di concreto: nonostante i vari sospetti, tutte le persone che erano state arrestate e incarcerate si erano dimostrate, in qualche modo, innocenti, venendo assolte.
La svolta arrivò nel 1991, quando la Squadra Anti-Mostro (SAM) che dal 1984 indagava su tutti i duplici omicidi consumatisi nella zona con la guida di Ruggero Perugini, iniziò a concentrarsi sulla figura di Pietro Pacciani.
Il suo nome compariva tra quello degli uomini che secondo gli inquirenti possedevano i tipici tratti di un assassino seriale, nonché tra quello dei pregiudicati. Nato nel 1925, era soprannominato il Vampa per il suo carattere irascibile e, oltre ad essere stato condannato per lo stupro delle due figlie, aveva scontato anche una pena per omicidio.
Nel 1951, all’età di 26 anni, aveva infatti ucciso l’amante dell’allora fidanzata Miranda Bugli, Severino Bonini, venendo condannato a 13 anni di reclusione. Quando era stato preso aveva raccontato di essere stato colto da un raptus dopo aver visto Miranda denudarsi il seno sinistro davanti al rivale in amore. L’ipotesi era che, uccidendo e accanendosi sui corpi delle vittime donne, volesse rivivere il delitto passato.
Nel 1993 fu arrestato. L’anno successivo i giudici di primo grado, dopo un processo per certi versi discutibile, lo condannarono all’ergastolo per sette degli otto duplici omicidi (esclusero quello del 1968, il primo). In Appello fu assolto per non aver commesso il fatto. Nel 1996 la Corte di Cassazione decise di annullare la precedente sentenza con rinvio, disponendo un processo d’Appello.
Prima che potesse essere giudicato Pacciani fu trovato morto, mezzo nudo, nell’abitazione in cui aveva vissuto insieme alla moglie Angiolina Manni dopo che le due figlie se ne erano andate di casa, denunciandolo. Era il 1998. Nel suo sangue c’erano tracce di un farmaco antiasmatico che ancora oggi non si sa come si fosse procurato.
Al termine del primo processo era stato condannato sulla base di diversi elementi indiziari: nella sua casa erano stati trovati diversi articoli sul Mostro, l’annotazione di una targa compatibile con quella dell’auto di una delle coppie uccise, un taccuino di marca tedesca che si pensava potesse aver sottratto ai due ragazzi uccisi nel 1983 e, non meno importante, dei bossoli che combaciavano perfettamente con quelli usati dal Mostro (e che però, circostanza strana, non erano mai stati sparati, come se ci fossero stati messi apposta, per incastrarlo).
Se Pacciani fosse innocente o colpevole dal punto di vista giudiziario non potremo mai saperlo. Sappiamo però che, nel corso degli anni Novanta, le indagini coinvolsero anche dei suoi amici, quelli che sarebbero stati chiamati da tutti i compagni di merende, per una frase che uno di loro aveva pronunciato nel corso del processo: Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi.
L’ultimo fu assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Pucci invece testimoniò contro Vanni e Lotti, sostenendo di aver assistito ad almeno due degli otto duplici omicidi. Alla fine i due furono condannati in via definitiva per quattro.
Secondo quanto ricostruito dall’accusa, aiutarono Pacciani. Sulla loro colpevolezza però ci sono molti dubbi. Per tanto tempo si è ipotizzato che fossero solo dei burattini nelle mani di qualcun altro, un mandante che avrebbe chiesto loro di commettere i delitti in cambio di soldi e che poi li avrebbe incastrati. Si tratta, appunto, di ipotesi. A oltre cinquant’anni dal primo delitto la storia del Mostro di Firenze resta, infatti, uno dei più grandi misteri d’Italia.
Parleranno degli ultimi sviluppi del caso Fabio Camillacci e Gabriele Raho nella prossima puntata di Crimini e criminologia, che andrà in onda domenica su Cusano Italia Tv (canale 122 del digitale terrestre) dalle 21.30 alle 23.30.