Rosario Livatino, noto come il “giudice ragazzino”, fu assassinato il 21 settembre 1990 sulla strada statale 640 tra Agrigento e Caltanissetta, mentre si recava in tribunale senza scorta.
La sua morte rappresenta uno degli episodi più tragici e simbolici della lotta dello Stato italiano contro la mafia negli anni ’80 e ’90.
Negli anni Ottanta e Novanta, la Sicilia era teatro di una feroce guerra di mafia. In questo scenario, la figura di Livatino emerge come quella di un magistrato rigoroso, incorruttibile e profondamente religioso, impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata e la corruzione politica. Livatino lavorava presso il Tribunale di Agrigento e aveva condotto indagini che toccavano i “fili scoperti” della cosiddetta “Tangentopoli siciliana”, una rete di corruzione che coinvolgeva mafia, politica e imprenditoria.
La sua attività giudiziaria aveva colpito duramente i patrimoni mafiosi, grazie all’uso innovativo della confisca dei beni, e aveva messo in difficoltà le organizzazioni criminali locali, in particolare la Stidda, una fazione mafiosa nata da una scissione interna a Cosa Nostra e attiva nel sud-ovest della Sicilia.
Livatino fu ucciso perché rappresentava una minaccia concreta e crescente per la mafia agrigentina. La sua incorruttibilità, la capacità investigativa e il coraggio nel colpire interessi economici e politici dei clan lo resero un bersaglio. La Stidda, in particolare, vedeva in Livatino un ostacolo alla propria espansione e un pericolo per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione.
L’omicidio fu anche un messaggio rivolto a Cosa Nostra, per affermare la forza e l’autonomia della Stidda in una fase di guerra tra clan.
Non va sottovalutato, inoltre, l’aspetto umano e spirituale: Livatino era profondamente credente e la sua fede era vissuta come una sfida dalla mentalità mafiosa, tanto che alcuni mandanti lo definirono sprezzantemente un “santocchio”, odiandone la coerenza morale e religiosa.
La mattina del 21 settembre 1990, Livatino stava guidando la sua Ford Fiesta amaranto verso il tribunale di Agrigento. Senza scorta per scelta personale, fu speronato da un’auto con a bordo quattro sicari della Stidda. Ferito a una spalla, tentò la fuga a piedi nei campi, ma fu raggiunto e ucciso a colpi di pistola dopo un inseguimento disperato.
Le indagini, rese possibili dalla testimonianza oculare di Pietro Nava, portarono rapidamente all’identificazione degli assassini. I primi arrestati furono Paolo Amico e Domenico Pace, esponenti della Stidda di Palma di Montechiaro, residenti in Germania dove lavoravano come pizzaioli. Entrambi furono riconosciuti come esecutori materiali e condannati all’ergastolo.
Le dichiarazioni di Gioacchino Schembri, altro esponente della Stidda divenuto collaboratore di giustizia, permisero di ricostruire la catena di comando e individuare altri responsabili. Tra i mandanti spicca il nome di Giuseppe Montanti, boss agrigentino, condannato all’ergastolo nel 1999 dopo una lunga latitanza in Messico. Anche Gaetano Puzzangaro fu identificato come uno dei killer che spararono a Livatino.
La struttura criminale che ordinò e realizzò l’omicidio era quindi composta da:
L’assassinio di Rosario Livatino fu un colpo durissimo per lo Stato e per la società civile italiana. Il suo esempio di magistrato onesto, rigoroso e fedele ai principi della giustizia e della fede cristiana è oggi riconosciuto a livello nazionale e internazionale. Nel 2021, la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato, riconoscendo il suo sacrificio “in odium fidei”, cioè per odio contro la fede.
La sua morte, tuttavia, non fu vana: le indagini e i processi che seguirono portarono all’arresto e alla condanna dei responsabili, grazie anche al coraggio di testimoni come Pietro Nava e all’impegno di magistrati come Paolo Borsellino. Livatino resta un simbolo della lotta alla mafia e della possibilità di uno Stato più giusto e credibile.
“Quando moriremo, non ci verrà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili". - Rosario Livatino