La prima volta che ho sentito parlare della Persia era il 1996: mia madre aveva acquistato un computer usato per ultimare la sua tesi di laurea e all’interno c’era installata la primissima versione, rilasciata nel 1989, del videogioco “Prince of Persia”. All’epoca avevo sei anni e di lì a poco giocarci divenne quasi un pensiero fisso per me. Prima che una partita potesse iniziare bisognava attendere circa un minuto che la schermata iniziale - una piccola riproduzione grafica di un castello persiano - svanisse. Ebbene, complice anche il fatto di aver sempre avuto una fantasia smisurata, iniziai a fantasticare su questo regno meraviglioso in mezzo al deserto, dove viveva una splendida principessa dalla carnagione ambrata, con una folta e lunghissima chioma bruna. Ciò che non potevo sapere, a causa della mia tenera età, era che da diverso tempo ormai, in quella terra meravigliosa che mi ero immaginata, alle donne era stata strappata via la possibilità di condurre un’esistenza libera. Ero ancora troppo giovane per conoscere L’Iran, la rivoluzione del 1979 e l’istituzione della Repubblica islamica, o la Shari'a. Aggiungiamoci pure il fatto che essendo cresciuta in una sorta di gineceo e che le figure maschili durante la mia infanzia sono state del tutto marginali, col caratterino che già da bambina mi contraddistingueva nettamente, se avessi saputo che esistevano dei luoghi nel mondo dove alle donne veniva impedito anche solo di vestirsi come meglio gli pareva, il mio disprezzo e il mio rifiuto sarebbero sorti rapidi e fulminei come uno schiaffo.
Sono passati trent’anni da allora e per quanto possa sembrare assurdo la situazione in Iran non è migliorata affatto. A raccontarcelo è la scomparsa di Mahsa Amini che nel 2022, nel pieno della sua giovinezza, è stata arrestata a Teheran per essersi rifiutata di indossare il velo, poi è stata condotta in una stazione di polizia dove è “misteriosamente” entrata in coma per tre giorni e infine il 16 settembre, a soli 5 giorni da quello che sarebbe stato il suo ventitreesimo compleanno, è morta. Giusto un paio di mesi dopo la dottoressa Aida Rostami, trentaseienne, è stata rapita, picchiata e uccisa dalle forze dell’ordine della capitale iraniana per aver curato dei manifestanti feriti durante delle proteste proprio in onore di Mahsa. Tutt’oggi migliaia di altre ragazze, non più disposte a sottostare alla legge islamica, subiscono purtroppo il medesimo destino e con loro chiunque le aiuti, uomo o donna che sia. E questo avviene sotto lo sguardo pigro e assopito di ciascuno di noi, che abbiamo imparato a convivere con la miseria e la mostruosità umana senza batter ciglio. Ma a tentare, forse invano, di risvegliare le nostre coscienze negli ultimi due anni ci hanno pensato film come “Il Seme del Fico Sacro”, del regista iraniano Mohammad Rasoulof che, nonostante le condanne plurime a causa delle sue opere cinematografiche e i tentativi di censura subiti, continua a raccontare gli orrori che avvengono nella sua amata terra, rischiando la prigionia e addirittura la vita. O “Leggere Lolita a Teheran”, diretto dall’israeliano Eran Riklis, tratto dal romanzo autobiografico della scrittrice ed ex professoressa Azar Nafisi.
Adesso è il turno di “Shayda”, distribuito in Italia, ahimè con grande ritardo rispetto agli altri Paesi, a partire dallo scorso 10 luglio. La pellicola, presentata in anteprima a gennaio 2023 al Sundance Film Festival, dove ha vinto il premio del pubblico, è l’opera prima della regista Noora Niasari. Nata in Iran, ma cresciuta in Australia, la Niasari ha anche scritto la sceneggiatura di questo dramma basandosi in parte sulla sua personale storia d’infanzia. Siamo a Brisbane, nel 1995, dove Shayda, una donna iraniana con una bambina piccola a carico, interpretata dall’acclamata attrice Zar Amir Ebrahimi, ha appena denunciato il marito per stupro plurimo e maltrattamenti reiterati. Accolta in una casa famiglia, con altre ragazze in situazioni simili, dovrà cercare di ricostruirsi una vita indipendente, malgrado all’ex compagno sia stata concessa dal giudice la possibilità di visita settimanale alla figlia Mona, costringendo entrambe a una vicinanza forzata col mostro che le ha traumatizzate. 117 minuti per un lungometraggio doloroso, aspramente critico nei confronti della comunità persiana, anche quella all’estero, che, almeno negli anni ‘90, era dura ad accettare che una moglie non fosse proprietà del marito, come bestiame da fattoria, e che avesse dei diritti e la facoltà di opporsi a ciò che non voleva per se stessa. Ho apprezzato moltissimo l’interpretazione di Zar Amir Ebrahimi nel ruolo della protagonista e anche quello della piccola Selina Zahednia nella parte di Mona. Così come sono rimasta affascinata dal ritratto emozionale delle tradizioni persiane dall’atmosfera magica, ad esempio il Nawrūz. A guastare un po’ l’intera pellicola c’è anzitutto il doppiaggio in italiano, che non ho apprezzato affatto. Anzi, credo abbia compromesso in particolare la prova attoriale di Selina. L’attore Osamah Sami, che veste i panni del marito Hossein, non mi ha convinta per niente.
Per quanto mi sia piaciuto, trovo che il film affronti in maniera troppo edulcorata il fenomeno della violenza domestica e di genere, forse colpa di un’inesperienza alla regia, essendo un esordio cinematografico. Prodotto e largamente voluto dall’attrice britannica Cate Blanchett, il film è stato dedicato alla madre della Niasari e alle donne iraniane. Spesso io stessa mi dimentico di aver avuto il privilegio, malgrado le difficoltà, di essere nata in uno Stato libero. Fortuna che molte danno per scontata. Con la speranza che presto tutte noi, in ogni parte del mondo, potremo essere libere da ogni costrizione maschilista, la lotta femminista oggi più che mai è un imperativo morale. Per “Shayda” tre virgola quattro stelle su cinque.