Forse sarò all’antica, ma quando mi ritrovo a guardare un film basato su una sceneggiatura che inserisce elementi come i social network o le usanze giovanili degli ultimi tempi, non posso fare a meno di storcere il naso. Magari è un mio limite o semplicemente non sarò pronta, però l’impressione che ho ogni volta è che sia tutto caricaturale e forzato. L’unica serie che è riuscita a farmi digerire quel tipo di trame è Black Mirror, ma non senza reticenze iniziali. Forse è perché appartengo a una generazione ancora giovane, ma cresciuta in un periodo in cui internet era appena nato e non faceva parte della nostra quotidianità. A ogni modo, è già da diversi anni che negli Stati Uniti vengono girati lungometraggi con una forte componente social (nella maggioranza horror, thriller e sci-fi) e, per quanto non sia un’appassionata di quel genere, la qualità dei prodotti cinematografici d’oltreoceano è innegabile che, sotto diversi aspetti, sia nettamente superiore alle produzioni nostrane. I thriller e gli horror, non me ne vogliano i fan di Dario Argento, secondo me sono un nostro punto debole ed è proprio per questo che c’è una sorta di pregiudizio diffuso in merito e che quando al cinema ne escono di nuovi quasi nessuno va a vederli. Io stessa li evito sempre come la peste.
Così, mentre mi recavo in sala per vedere Dedalus, il secondo lungometraggio di finzione del regista Gianluca Manzetti, continuavo a percepire il presentimento che non mi sarebbe piaciuto affatto. E purtroppo non mi sbagliavo. Tratta però in inganno da una recensione positiva, letta sul sito della redazione Sentieri Selvaggi, in cuor mio mi ero illusa di poterne rimanere soddisfatta. La storia vede protagonisti sei influencer che, dopo essere stati selezionati per partecipare a un contest in live streaming su Instagram, chiamato Dedalus (da cui il film prende il nome), col passare delle ore si renderanno conto in realtà di essere stati rapiti. Rimasti dunque bloccati in un castello antico e costretti a prendere parte a delle prove pericolose e umilianti, comprese delle torture, dovranno capire perché stia accadendo loro una mostruosità simile, che potrebbe costargli addirittura la vita.
Partiamo dal fatto che l’idea non è poi così originale: soggetti analoghi sono già stati diretti da svariati cineasti americani. In secondo luogo ciò che rende poco credibile l’intera narrazione è la ricostruzione grottesca dei personaggi, che risulta come una caricatura di alcuni influencer. In particolare, il ruolo interpretato dall’attrice Matilde Gioli è una scopiazzatura delle “onlyfanser” più note, a partire dal piercing al naso poco comune, il doppio nostril legato da una nose chain, identico a quello della sex worker Alex Mucci, che offre servizi di intrattenimento erotico proprio sulla piattaforma Onlyfans e che ha fatto successo tramite Tik Tok. Per far sì che gli interpreti risultassero meno macchiettistici bastava non imitare l’aspetto esteriore e i comportamenti dei volti noti dei social network, perché così il rischio che si correre è di sprofondare nella parodia, anziché realizzare un dramma dalle tinte horror.
Non mi sono piaciuti neppure gli attori (neanche Francesco Russo, che di solito invece apprezzo molto), fatta eccezione per Gianmarco Tognazzi, sempre bravo e professionale, di cui sorprende la scelta di fare parte del cast visto il suo profilo artistico. Il regista Manzetti, addentrandosi nel campo del revenge porn, del materiale pedopornografico e del suicidio, fa una mossa troppo azzardata, peccando di presunzione e arrogandosi una certa autorevolezza che, essendo alla sua seconda pellicola, non può ancora permettersi. Traspare una certa retorica spicciola e un moralismo semplicistico, alla stregua dei servizi d’inchiesta de Le Iene. Se dovessi scegliere un film italiano che nella trama inserisce degli elementi legati a internet, facendone uno dei punti cardine della storia, penserei a Vetro (2022), esordio cinematografico di Domenico Croce. Per Dedalus 2,5 stelle su 5.