Proseguono i lavori delle diplomazie in vista dell’atteso bilaterale tra Putin e Zelensky, seppur nel timore, diffuso in Europa, che Putin possa far saltare il negoziato. Anche perché, nonostante gli sviluppi diplomatici dell’ultima settimana – prima ad Anchorage, in Alaska, e poi alla Casa Bianca – la Russia non ha interrotto gli attacchi sul campo contro l’Ucraina.
Dopo giorni incalzanti, la premier Meloni è rientrata in Italia, consapevole dei molti nodi irrisolti ma, allo stesso tempo, fiduciosa del fatto che qualcosa stia finalmente cambiando e che, anzi, a Washington sia “andata meglio di quanto previsto”.
Sul piano politico interno, Meloni può rivendicare innanzitutto la presenza al tavolo, fatto tutt’altro che scontato, e la vicinanza a Trump, suggellata anche dal posto riservatole simbolicamente alla sua sinistra. Inoltre, la premier può sottolineare di aver sostenuto da tempo la linea che oggi guida i colloqui: l'estensione all’Ucraina garanzie di sicurezza modellate sull’articolo 5 della Nato.
Se a Washington Meloni ha rivendicato il ruolo di un “Occidente unito per costruire pace e sicurezza”, in Europa permangono profonde divisioni tra la posizione italiana e quella dei cosiddetti “Volenterosi”, guidati da Francia e Gran Bretagna. Le differenze più marcate emergono proprio con Macron, strenuo sostenitore dell’idea di un contingente europeo a difesa dei confini ucraini, una proposta che Roma ha sempre respinto.
In più occasioni, Meloni ha ribadito l’indisponibilità dell’Italia, posizione confermata anche dal ministro della Difesa Guido Crosetto, secondo cui “qualcosa che riprenda l’articolo 5 appare una protezione adeguata”. Un eventuale partecipazione di soldati italiani, ha chiarito il ministro, sarà valutata solo quando saranno sul tavolo tutte le condizioni. Nel frattempo oggi, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Portolano, parteciperà oggi per conto dell’Italia alla call tra i vertici militari dei 32 Paesi Nato.
L’accelerazione sul fronte ucraino ha relegato momentaneamente in secondo piano un altro dossier cruciale: Gaza. Ieri Hamas ha aggiornato le stime delle vittime nella Striscia, parlando di oltre 62 mila morti, tra cui 18.885 bambini.
Contestualmente, Hamas ha annunciato di aver accettato la proposta di tregua mediata da Qatar ed Egitto, che prevede un cessate il fuoco di 60 giorni e l’apertura di negoziati.
Netanyahu ha però ribadito che l’unica condizione per fermare la guerra resta il rilascio di tutti gli ostaggi, chiudendo di fatto alla possibilità. Una linea sostenuta con forza dall’ala oltranzista e messianica del governo. Nel frattempo, il ministro della Difesa israeliano Katz ha dato il via libera al piano per la conquista di Gaza City, autorizzando la mobilitazione di circa 60 mila riservisti.
Pur avendo rafforzato nelle ultime settimane la critica verso le azioni militari israeliane, il blocco agli aiuti umanitari e l’uso della fame come arma di guerra, la posizione del governo italiano su Gaza resta improntata alla prudenza.
Lo scorso 10 agosto, insieme ad altri nove Paesi, l’Italia ha sottoscritto una dichiarazione congiunta per condannare la decisione del gabinetto israeliano di avviare un’operazione su larga scala a Gaza. Nel documento si chiedeva inoltre ad Hamas di liberare tutti gli ostaggi, chiarendo che l’organizzazione dovrà essere esclusa da qualsiasi ruolo di governo nel futuro della Striscia.
Meloni – ancora una volta in divergenza con Macron – ha escluso però la via del riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina, giudicata “controproducente”. «Se qualcosa che non esiste viene riconosciuto sulla carta – ha spiegato – il problema rischia di sembrare risolto, quando non lo è».
La stessa linea è stata ribadita ieri dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha confermato l’obiettivo di favorire, al momento opportuno, la nascita di uno Stato palestinese in grado di riconoscere Israele. «Ci riconosciamo nel progetto egiziano – ha aggiunto – e siamo pronti a inviare truppe per una missione Onu a guida araba, finalizzata a costruire lo Stato palestinese».