L’adeguamento degli assegni pensionistici previsto per il 2026 potrebbe avere un impatto significativo sia sulle finanze dello Stato che sulla vita di milioni di pensionati italiani. Secondo le stime più recenti, l’operazione dovrebbe comportare un esborso vicino ai cinque miliardi di euro, senza contare le maggiori entrate fiscali che deriverebbero dagli incrementi delle pensioni. Il governo si sta già muovendo per tracciare le linee della prossima Legge di Bilancio, una manovra che sarà chiamata a conciliare sostenibilità economica e tutela del potere d’acquisto degli anziani.
Le rilevazioni diffuse ad agosto indicano un’inflazione acquisita per il 2025 pari all’1,7%. Se tale percentuale venisse applicata indistintamente a tutta la spesa pensionistica—stimata in circa 355 miliardi di euro—la necessità di risorse supererebbe i sei miliardi. Tuttavia, la normativa vigente prevede un meccanismo di perequazione differenziata: piena rivalutazione fino a quattro volte il trattamento minimo, rivalutazione al 90% tra quattro e cinque volte, solo il 75% oltre tale soglia. Ciò consente di ridurre l’onere stimato a circa cinque miliardi di euro. L’applicazione di queste soglie rispetta un principio di progressività e tutela soprattutto i redditi più bassi, ma rimane oggetto di dibattito.
Per il 2025 il trattamento minimo pensionistico ammonta a 603,40 euro mensili, pari a 7.844,20 euro annui. Una maggiorazione straordinaria del 2,2% porta l’assegno minimo a 616,67 euro al mese. I maggiori vantaggi dalla rivalutazione li ottengono coloro che ricevono pensioni non superiori a 2.466 euro. Dal punto di vista statistico, nel 2023 circa il 78,9% dei pensionati percepiva un importo lordo inferiore a 2.500 euro, assorbendo complessivamente il 56,7% della spesa pensionistica totale. Il limite ufficiale per accedere alla perequazione integrale è fissato a 2.394 euro, ossia quattro volte il trattamento minimo.
Una novità rilevante arriva dalla giurisprudenza: il tribunale di Trento ha rinviato alla Corte costituzionale la valutazione sulla legittimità del meccanismo di perequazione automatica introdotto dalle Leggi di Bilancio 2023 e 2024. Ad oggi, la rivalutazione avviene a blocchi anziché a scaglioni, con aliquote ridotte che si applicano sull’intero importo della pensione. Questo sistema potrebbe essere messo in discussione, con possibili effetti retroattivi sulle modalità di calcolo degli assegni.
Traslando queste regole sulla spesa pensionistica stimata per il 2025, occorre applicare l’incremento dell’1,7% su oltre 201 miliardi di euro, con un fabbisogno di risorse superiore a 3,4 miliardi. Per i restanti 153,7 miliardi, il recupero parziale legato alla rivalutazione (75% dell’inflazione) comporta una spesa stimata in circa 1,959 miliardi. La somma tra questi due interventi porta il costo totale della perequazione pensionistica a oltre 5,3 miliardi di euro. Un tema che sarà cruciale nell’ambito della prossima Legge di Bilancio e nella definizione delle priorità del governo.
Tra le ipotesi di riforma emerse recentemente, c’è la possibilità di utilizzare il Tfr come rendita per anticipare l’uscita dal lavoro a 64 anni. Il Trattamento di fine rapporto potrebbe diventare una leva per rafforzare la previdenza complementare, sempre più cruciale di fronte ai limiti del sistema pubblico. Secondo le simulazioni, la misura costerebbe circa tre miliardi di euro a regime, con un impatto minore nel primo anno. Un tesoretto accumulabile in due anni—complice il calo dei rendimenti dei titoli di Stato e la conseguente minore spesa per interessi—potrebbe ammontare a circa 13 miliardi di euro.