Quando fu chiaro che Giorgia Meloni sarebbe stata la prima donna Presidente del Consiglio nella storia del Paese, molti analisti politici immaginarono scenari difficili già a partire dal secondo anno di governo.
Difficoltà legate a promesse difficilmente realizzabili, problemi di bilancio, tensioni interne alla coalizione e, non meno importanti, alle contraddizioni della linea politica di Matteo Salvini.
Le difficoltà sono puntualmente arrivate, ma Meloni le ha superate con relativa facilità, tanto da mantenere — ed è un record — un gradimento oltre il 42% tra gli elettori dopo tre anni di governo.
Quindi, bravissima la Meloni? Certamente possiede una brillante intelligenza politica e una capacità comunicativa molto elevata, questo è fuori discussione. Ma basta davvero questo per mantenere un consenso così alto, nonostante i mille problemi che attanagliano cittadini e imprese, ancora irrisolti?
La risposta è no. La premier resta in cima soprattutto per mancanza di competitor.
È infatti sparita l’opposizione. La critica più dura alla Meloni arriva dall’interno: da Salvini, che su ogni tavolo — dalla politica estera alle trattative sulle candidature regionali — non perde occasione per alzare il prezzo, rilanciare, smarcarsi e affondare.
In Italia la sinistra, con il PCI, poi PDS, DS e infine PD, ha svolto per decenni il ruolo di opposizione in modo forte e visibile. Vi erano ideologie chiare, leader di spessore, un costante contatto con le fabbriche, con i lavoratori, con i ceti meno abbienti. Era una sinistra che rappresentava una parte importante della popolazione, sostenendone le legittime istanze, e che portava milioni di persone nelle piazze.
Oggi lo scenario è radicalmente diverso. Il Partito Democratico, erede del PCI, ha un’identità confusa, si è allontanato dai ceti popolari e appare persino altezzoso. Per gestire i soliti equilibri interni fra riformisti, centristi e progressisti, si è scelto di affidare la segreteria a Elly Schlein, ritenuta meno ingombrante e meno solida del rivale Stefano Bonaccini.
La Schlein ha vinto con promesse di rinnovamento e con l’intenzione di spostare il partito più a sinistra. Ma molte di quelle promesse si sono infrante, come dimostra il caso Campania: Vincenzo De Luca, simbolo di quei “notabili” che la nuova segretaria avrebbe dovuto archiviare, detta ancora la linea, ha imposto la segreteria regionale per il figlio Piero e attacca quotidianamente il suo stesso partito.
Il dato più preoccupante, però, è la linea politica della segretaria: da un lato insegue Conte pur di averlo in coalizione — cedendogli parte dell’elettorato PD e offrendogli una visibilità sproporzionata — dall’altro sembra aver dimenticato i valori storici a cui il PD dovrebbe restare fedele.
Il lavoro e le crisi industriali sono stati abbandonati, lasciati nelle mani di Landini e della CGIL, ormai ridimensionata rispetto al passato. Nessun riferimento serio ai poveri, alle periferie, ai ceti deboli. Gli unici fronti realmente presidiati dal PD di Schlein sono i diritti civili e la questione palestinese: temi importanti, ma insufficienti per un partito che dovrebbe guidare l’opposizione.
Eppure ci sarebbe anche un ampio spazio elettorale da conquistare, visto che i 5 Stelle restano privi di una proposta politica affidabile. Conte, però, da abile stratega, ha saputo sfruttare la debolezza della Schlein: con un costante tira e molla — sempre subito passivamente dalla segretaria — ha consolidato il M5S a sinistra, nonostante tutti attendessero il suo crollo.
Con questo quadro, a meno di scossoni come un cambio di segreteria o la scelta di un candidato premier diverso da Schlein, è difficile immaginare una sconfitta della Meloni nel 2027. La premier, consapevole della fragilità della sua opposizione, ha gioco facile nel mantenere la rotta. In tre anni il PD non ha bloccato alcun provvedimento, non ha ottenuto risultati, non ha scalfito la credibilità della Meloni, non ha portato la gente in piazza come le opposizioni in altri Paesi europei. Non propone una visione diversa, ma solo slogan e continui richiami a un pericolo fascista che, a livello elettorale, pesa sempre meno. Certo, non ci si aspetterebbero iniziative come gli storici governi ombra del PCI, ma almeno quattro idee chiare e di prospettiva sarebbero necessarie.
Le imminenti elezioni regionali e la nuova legge elettorale saranno un banco di prova decisivo per i futuri equilibri politici. Ma un dato è certo: mentre Meloni ha una direttrice chiara di destra, seppur dialogante col centro, la Schlein non ha ancora fatto capire quale sia la direzione del suo partito, il tempo stringe e le elezioni politiche sono dietro l'angolo.