Tea è una nuova app di incontri che promette di rendere il dating più sicuro per le donne, ma che in pochi mesi ha scatenato polemiche per l’impatto devastante sulla reputazione degli uomini coinvolti. Progettata per il pubblico femminile e presentata come “scudo digitale”, Tea consente alle donne di lasciare recensioni anonime sugli uomini conosciuti, pubblicando foto e nome nel database dell’app.
Dietro l’apparente tutela, però, inizia a emergere una realtà fatta di accuse, punteggi negativi e conseguenze spesso irreversibili: uomini diffamati, licenziamenti, relazioni distrutte, processi pubblici sommari e una totale disparità nella possibilità di difendersi. Tea è la sintesi di quella logica dei “due pesi e due misure” denunciata dagli uomini che si oppongono al nazifemminismo e rivendicano equità.
La piattaforma, pensata dall’imprenditore Sean Cook — ispirato dalle esperienze negative della madre — abbina tecnologie di verifica dei profili, incroci con i registri penali e filtri per la ricerca inversa di immagini. Le donne, dopo una verifica tramite selfie, possono raccontare la propria esperienza, segnalando “red flag” e “green flag”. In teoria lo strumento serve a condividere storie di possibili abusi o comportamenti ambigui. In pratica, l’anonimato e la struttura premiata dal like e dal consenso femminile incentivano una valanga di segnalazioni che spesso non vengono verificate.
Il sistema SafeSip dichiara di avere tolleranza zero per la diffamazione, ma le testimonianze raccolte online mostrano che la rimozione dei contenuti falsi è difficile, poco trasparente e raramente efficace. Gli uomini finiscono sotto il giudizio collettivo senza alcuna possibilità di replica.
Alessandro, manager quarantenne nel settore IT, italiano ma residente negli Usa, ha visto la sua vita cambiare drasticamente a causa di Tea. “Tutto è iniziato dopo una storia finita male. Nel giro di due settimane mi sono ritrovato con tre recensioni negative. Nel database appariva il mio nome, la mia foto presa dai social e una serie di accuse senza nessuna verifica oggettiva: arrogante, bugiardo, ‘probabile traditore’”.
Nel suo racconto, Alessandro sottolinea quanto sia stato impossibile difendersi: “Ho cercato di segnalare i commenti, ma la procedura è un labirinto. Ho perso un importante progetto, perché il mio cliente ha trovato la mia scheda Tea durante una ricerca su Google. Ho ricevuto chiamate anonime, insulti via social, e la mia compagna, vittima anche lei della gogna, è stata chiamata cornuta pubblicamente".
"Ho pensato più volte di lasciare il paese -racconta Alessandro-. Nessuno ha voluto sentire la mia versione. La mia privacy è stata cancellata da un sistema che crede la donna, sempre e a prescindere. La parità di trattamento non esiste: basta una cattiva impressione per distruggere la reputazione di una persona. Dove sono le tutele per noi uomini?”
Molti utenti maschili avvertono che Tea rischia di promuovere vendette personali e giudizi sommari, inficiando il principio della presunzione di innocenza. Se per le donne l’app è vissuta come un luogo sicuro di condivisione, per gli uomini si trasforma in una minaccia costante: una macchina del fango fondata sulla logica del sospetto, dove la reputazione si gioca a livelli di popolarità, like e gradimento.
Gli uomini critici verso Tea rivendicano da mesi maggiore trasparenza, diritto di appello e difesa, e la fine dei privilegi e delle disparità dettate dal femminismo radicale e dal sistema mediatico dominante. Mentre la società si congratula con Tea per aver reso più sicuro il dating digitale, nessuno discute delle ingiustizie sofferte dagli uomini “giudicati”: una discriminazione che, nel nome della sicurezza, rischia di trasformarsi in una prigione sociale.
Tea, l’app dei due pesi e due misure: la nuova frontiera della reputazione al tempo degli algoritmi, dove l’uomo appare sempre e comunque colpevole, e nessuno è disposto a proteggerlo da una condanna travestita da giustizia digitale.