Sono giorni importanti nella Repubblica Democratica del Congo dove si sta svolgendo il processo per l’omicidio dell'ambasciatore italiano nel Paese africano Luca Attanasio, a poco più di due anni dalla sua scomparsa.
Nella capitale Kinshasa, sede del dibattito in tribunale, martedì scorso l'accusa aveva chiesto la pena capitale per i cinque congolesi alla sbarra e un sesto latitante. Lo Stato italiano, che si è costituito parte civile nel processo, ha inviato un comunicato diffuso durante l’udienza di oggi in cui chiede la conversione della pena dall’esecuzione capitale alla carcerazione. La notizia viene battuta dalla cancelleria del tribunale congolese.
Già da tempo infatti il governo è impegnato in questo tipo di battaglie giudiziarie, contrastando l’uso della violenza cieca nei Paesi laddove è ancora in vigore. Una richiesta che sarebbe partita, o quanto meno avallata, anche dal padre di Luca Attanasio, Salvatore, il quale ha commentato in una lettera lo svolgimento del processo per la morte del figlio a migliaia di chilometri di distanza.
Questo il passaggio più significativo, in cui emerge come questa sarebbe stata la volontà di Luca se fosse ancora vivo. Ideali personali ma anche collettivi, nazionali: dalla Costituzione, al senso civico e quello religioso. Vedere morire nel pieno della sofferenza i colpevoli non potrà in alcun modo alleviare il dolore della nostra famiglia". Nessuna vendetta ma un desiderio immenso di chiarezza e verità.
Il dibattito ora si svolge su due fronti: quello africano, già iniziato, dovrà accertare in particolar modo l’ipotesi legata all’esecuzione (e dunque ragionare poi sui mandanti); quello italiano, slegato e frammentato, che prevede il prossimo 25 maggio, a Roma, l'udienza preliminare nei confronti di due funzionari del Pam (il Programma alimentare mondiale dell'Onu che aveva organizzato la spedizione durante la quale fu ucciso Luca Attanasio