Ci sono casi di omicidio che, per esecuzione o risoluzione, ne ricordano altri. E poi ci sono casi che, nel loro genere, sono considerati unici, come quello che stiamo per raccontare. Si tratta di un caso che come pochi altri, in Italia, ha avuto risonanza mediatica. Un caso in cui per arrivare al colpevole hanno svolto un ruolo cruciale le analisi sul Dna, diventate la cosiddetta prova regina. È il caso di Yara Gambirasio, iniziato il 26 novembre del 2010 a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, con una denuncia di scomparsa.
Sono da poco passate le 17 del pomeriggio di venerdì 26 novembre 2010. In un piccolo paese della provincia di Bergamo, Brembate di Sopra, una tredicenne si avvia a piedi verso il centro sportivo in cui pratica ginnastica ritmica, situato a circa 700 metri dalla sua abitazione.
Ha gli occhi marroni e i capelli mossi e castani. È alta e snella. Ai denti porta un apparecchio fisso a stelline. Frequenta la classe terza C della scuola Maria Regina di Bergamo. Adora Johnny Depp e Laura Pausini. Si chiama Yara Gambirasio.
In palestra si presenta per consegnare alle sue istruttrici uno stereo. Poi si ferma a guardare l’allenamento dei più piccoli. Quando esce, un’oretta dopo il suo arrivo, qualcuno la avvista mentre si dirige verso casa. Poi di lei si perdono improvvisamente le tracce.
I genitori ne denunciano la scomparsa, sono preoccupati. Le indagini dei carabinieri si concentrano, in un primo momento, sui luoghi frequentati dalla giovane e sulla localizzazione del suo telefonino, che alle 18.49 risulta essere stato agganciato da una cella di Mapello, un paese vicino.
Nei pressi di un cantiere edile del posto i cani molecolari fiutano tracce di Yara. All’inizio di dicembre uno degli operai che vi lavorano, di nome Mohammed Fikri, viene arrestato perché sospettato di essere coinvolto nella sua sparizione. Ha 22 anni, è di origini marocchine. Ad incastrarlo, secondo gli inquirenti, sarebbe un’intercettazione telefonica in cui, parlando arabo, avrebbe detto Allah mi perdoni.
Si scoprirà solo molto tempo dopo che si era trattato di un errore di traduzione e che ciò che Fikri voleva dire era in realtà Allah mi protegga. La sua posizione, a quel punto, verrà archiviata. La svolta arriva il 26 febbraio del 2011, quando un aeromodellista impegnato in dei test in un campo di Chignola d’Isola, a una decina di chilometri da Brembate di Sopra, fa la terribile scoperta, dando l’allarme: la tredicenne è stata uccisa.
Quando viene ritrovato, il corpo della ragazza è riverso a terra, in posizione supina, con evidenti ferite da arma da taglio. La consulenza medico-legale viene affidata dalla Procura competente ai professori Cattaneo e Tajana. Stando ai loro accertamenti, Yara sarebbe morta attorno alle 22 del giorno della scomparsa a causa della combinazione di due elementi: le lesioni riportate e la lunga permanenza in un luogo a bassissima temperatura.
Da un campione di Dna prelevato sui suoi slip, tagliati, gli esperti del Ris estrapolano un profilo genetico maschile che gli inquirenti chiamano Ignoto 1. Dopo vari accertamenti si arriva a un nome: Giuseppe Benedetto Guerinoni, deceduto nel 1999. Secondo chi indaga si tratta del padre dell’assassino di Yara. La metà mancante del Dna, quella materna, viene attribuita a Ester Arzuffi.
Si scopre che la donna ha avuto due figli illegittimi: uno di loro si chiama Massimo Giuseppe Bossetti. Il 15 luglio del 2014 l’uomo, originario di Mapello, viene fermato dai carabinieri e sottoposto all’alcol test. Il Dna estrapolato dal suo tampone salivare risulterà combaciare con quello di Ignoto 1.
Dopo l’arresto e la chiusura delle indagini sul caso, il 26 febbraio 2015 Bossetti viene rinviato a giudizio. Ha due figli e una moglie. Fin da subito si professa innocente. L’accusa però sostiene che sia stato lui, ad uccidere Yara: l’avrebbe attirata con la scusa di darle un passaggio, a bordo del suo furgone bianco; poi, dopo averla portata in un posto isolato, l’avrebbe accoltellata, forse dopo un approccio sessuale.
A suo carico ci sono vari indizi di colpevolezza. Ma soprattutto c’è una prova, quella che in gergo viene chiamata la prova regina, su cui si regge tutto: l’analisi del Dna. Il primo luglio del 2016 i giudici della Corte d’Assise di Bergamo lo condannano all’ergastolo, riconoscendogli anche l’aggravante della crudeltà, che si configura in tutti i casi in cui l’autore di un omicidio infligga alla vittima sofferenze inutili, ulteriori rispetto a quelle necessarie a cagionarne la morte.
L’anno successivo la condanna viene confermata anche in secondo grado. Il 12 ottobre del 2018 diventa definitiva. Nel motivare la loro sentenza i giudici della Cassazione smontano una ad una le obiezioni della difesa dell’imputato.
Subito dopo il processo i legali di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, chiedono di poter visionare e analizzare i reperti da cui è stato estrapolato il Dna che avrebbe incastrato il loro assistito. Con la Corte d’Assise di Bergamo inizia un vero e proprio braccio di ferro: la Corte dice "no", loro rispondono con vari ricorsi in Cassazione.
Lo scorso maggio la Corte – che aveva espresso parere positivo già nel 2019 – ha accolto la richiesta, rinviando la decisione a Bergamo, che a sua volta ha dato l’ok all’accesso ai reperti, ma per la sola visione. L’udienza era stata fissata per il 20 novembre scorso, ma i difensori di Bossetti hanno deciso di presentare un nuovo ricorso per l’esame: il loro obiettivo è riuscire non solo a vedere i reperti, ma anche ad analizzarli, per capire se in passato siano stati compiuti degli errori. Intanto Bossetti resta in carcere, secondo alcuni ingiustamente.
Della sua travagliata vicenda giudiziaria parleranno Fabio Camillacci e Gabriele Raho insieme all’avvocato Salvagni nella prossima puntata di Crimini e Criminologia, che andrà in onda domenica 26 novembre, giorno dell’anniversario della morte della ragazza, dalle 21.30 alle 23.30 su Cusano Italia Tv (canale 264 del digitale terrestre). Per recuperare la scorsa puntata clicca qui: Viaggio nel mondo del Satanismo.