Alessia Pifferi è accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia Diana; nel fascicolo d'inchiesta parallelo a quello sull'omicidio, aperto dal pm Francesco De Tommasi, l'avvocata che la difende e le due psicologhe del carcere di San Vittore che la visitarono sono indagate per falso e favoreggiamento: ecco perché.
Stando a quanto ricostruito grazie alle intercettazioni dei colloqui avuti in carcere dalla 38enne, di comune accordo con il suo legale, l'avvocata Alessia Pontenani, le due psicologhe che visitarono Alessia Pifferi falsificarono gli esiti di un test psicodiagnostico (che non avrebbero dovuto effettuare, in quanto il loro compito era solo quello di capire se la donna potesse essere reclusa), per far emergere un grave deficit cognitivo della stessa.
Non è tutto. Per aiutarla, secondo la Procura, le due avrebbero anche scavato nel suo passato con l'obiettivo di determinare un profilo psicologico che potesse in qualche modo "spiegare" il contesto in cui è maturato il delitto di cui si è macchiata. Dettagli riportati nelle relazioni presentate dalle stesse al termine dei loro incontri, che avevano permesso alla sua difesa di chiedere ed ottenere la perizia psichiatrica.
si legge in una di esse. A riportarne il contenuto è Il Corriere della Sera, secondo cui, in sostanza, le psicologhe avrebbero provato a dimostrare che i reati contestati alla donna potessero essere "la conseguenza del suo desiderio di costruirsi una vita familiare stabile".
Secondo la Procura Pifferi avrebbe incontrato le due psicologhe - che a loro volta erano in contatto con l'avvocata Pontenani - almeno cinque volte, mentre era in corso, da parte degli psichiatri nominati dal pm, la perizia.
Oltre ad insultare gratuitamente questi ultimi, in quei momenti si sarebbero soffermate "esclusivamente sull'aspetto processuale della vicenda", come se fossero consulenti difensive, mentre avrebbero solo dovuto fornirle "supporto psicologico" dopo la reclusione.
Il legale che la difende ha dichiarato che se il pm "aveva dei dubbi sulla regolarità delle attestazioni" avrebbe dovuto confutarle nel processo che si è aperto a Milano a carico della donna e non in uno parallelo.
Davanti ai giudici della Corte d'Assise la 38enne deve rispondere dell'accusa di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di fame e sete la figlia di appena 18 mesi abbandonandola per giorni in casa in un lettino da campeggio.
I fatti risalgono all'estate del 2022. La donna era uscita per recarsi dal nuovo fidanzato a Bergamo, raccontandogli di aver lasciato la piccola Diana in compagnia della nonna e della sorella Viviana. Quando era tornata, circa una settimana dopo, ne aveva trovato il corpicino senza vita sul lettino in cui l'aveva lasciata.
Accanto c'erano un biberon vuoto, una bottiglietta di acqua e una scatola di tranquillanti. L'ipotesi è che glieli abbia somministrati prima di abbandonarla, affinché non piangesse: non era la prima volta che lo faceva. Secondo gli inquirenti, viveva la figlia come un "peso" ed era convinta che la sua presenza potesse ostacolare la sua relazione e, di conseguenza, la sua felicità.
Era concentrata su sé stessa e sui suoi bisogni e non sulla bambina: secondo il racconto dei testimoni in aula, acquistava continuamente vestiti e borse. I primi agenti entrati nella sua abitazione dopo il delitto riferirono, non a caso, di aver notato al suo interno almeno 30 abiti da sera diversi, ma il frigo vuoto. La difesa aveva provato a dimostrare che fosse affetta da un ritardo mentale e che non fosse capace di intendere e di volere. Ora è tutto da rivedere.