La sera del 30 gennaio di un anno fa il 19enne Thomas Bricca veniva freddato a colpi di pistola al posto dell’amico che era con lui a pochi passi dal centro di Alatri, in provincia di Frosinone. In occasione dell’anniversario e a pochi giorni dall'inizio del processo a carico di Roberto e Mattia Toson, padre e figlio accusati di avergli sparato, abbiamo ripercorso quei drammatici momenti e ciò che ne è seguito insieme allo zio Lorenzo Sabellico.
Lorenzo, chi era Thomas?
"Thomas era un ragazzo come tutti gli altri. Un ragazzo con le sue fragilità, ovviamente, ma molto attivo e inclusivo, con molte amicizie. Non stava fermo un attimo, già da piccolo. E non aveva mai dato problemi. Sorrideva a tutti e da tutti ad Alatri era benvoluto. Per me era speciale".
Dal suo omicidio è passato un anno. Ti va di raccontarmi qualcosa di quella drammatica sera?
"Premetto che avevo avvisato Thomas di stare attento alle situazioni che si stavano sviluppando in paese, alle risse che si susseguivano da un mese (e in cui erano coinvolti Roberto e Mattia Toson, ora imputati dell’omicidio, ndr). Quando la sera del 30 gennaio i suoi amici vennero a prendermi a casa singhiozzando capii subito che era successo qualcosa di inerente.
Mi recai sul posto e trovai Thomas riverso a terra, con un foro di proiettile sulla fronte. Mi resi subito conto della gravità della situazione, che se anche fosse sopravvissuto avrebbe potuto riportare danni irreversibili. Abitava al piano superiore rispetto al mio, l’avevo visto crescere… in quel momento mi è crollato il mondo addosso. Erano le 20. Riuscii a tornare a casa e a raccontare tutto a mia sorella (la madre di Thomas, ndr) a mezzanotte. È stato straziante. Un dolore indescrivibile".
Questo dolore si è trasformato, però, in qualcosa di positivo. Penso all’associazione L’albero di Thomas, che si propone come un vero e proprio polo di ascolto per i giovani…
"L’associazione è nata da un progetto che avevo scritto e che riguardava, in qualche modo, la rivalutazione della mia vita: il mio cammino in comunità, la disintossicazione e poi la trasformazione di tutto ciò che avevo dentro in energia positiva, fino al reinserimento nella società, con tutte le difficoltà del caso. L’avevo generalizzato a tutti i ragazzi che avevano vissuto le stesse cose.
All’inizio si chiamava ‘L’albero delle ricchezze’, dopo l’omicidio di mio nipote gli ho semplicemente cambiato nome ed è diventato ‘L’albero di Thomas’. È andato ad incastonarsi perfettamente nel contesto sociale di quel momento, di questo momento, quasi profeticamente. L’albero è un simbolo. Indica la radice che affonda nel dolore; il dolore che passa per l’arbusto e che diventa linfa vitale per i rami, che a loro tempo daranno i propri frutti.
Ricordo sempre il dialogo che ebbi con un operatore della comunità che frequentavo, un frate. Gli chiesi: ‘Ma che me ne faccio di tutto il dolore e l’odio che ho dentro?. Lui mi rispose: ‘Chi ti ha detto che sia odio? Che sia energia negativa? Tutto il frastuono che senti dentro di te è amore non espresso, devi solo trovare il canale giusto per darlo agli altri’. È ciò che vogliamo far capire a tutti i ragazzi attraverso l’associazione: che quello che hanno dentro devono darlo agli altri, alla società, affinché, con il loro contributo, possa arricchirsi. L’obiettivo è trasformare il dolore in risorsa".
Dal processo che si aprirà a breve cosa vi aspettate?
"Siamo sicuri fin dall’inizio – così come tutta la comunità di Alatri – che gli imputati siano colpevoli, che siano loro gli autori dell’omicidio. Anche in virtù del discorso che abbiamo fatto sulla trasformazione del dolore, penso che i ragazzi abbiano bisogno di un messaggio importante da parte delle istituzioni: che lo Stato c’è, che la giustizia c’è, che funziona e che è serva dell’uomo (non l’uomo servo della giustizia, dell’istituzione).
La vita di un ragazzo di 19 anni è inestimabile. Se un giovane muore, muore l’universo. Quindi, anche per la modalità in cui è stato commesso l’omicidio – a nostro giudizio ‘mafiosa’, costruita nei minimi dettagli –, ci aspettiamo, anzi pretendiamo, l’ergastolo. Come famiglia e come comunità. Per un delitto come questo non sono ammessi sconti.
Roberto e Mattia Toson poi hanno scelto la strada più orribile che potessero scegliere. Davanti a un atto così becero avrebbero potuto almeno ammettere le proprie colpe, sarebbe stato un segnale positivo. Invece sono rimasti fermi sulle loro posizioni, prendendosi beffa della comunità e del dolore della nostra famiglia. La dice lunga sulla loro pericolosità sociale e sul fatto che, almeno a mio modesto parere, siano irrecuperabili".